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 2021  giugno 06 Domenica calendario

Perché Kabul fa paura alla Cina

Stati Uniti e Nato lasciano l’Afghanistan, i taleban sono convinti di poterlo riconquistare in fretta e questa volta è la Cina a temere di più l’instabilità cronica della nazione che ingoia gli imperi.
È la decisione del presidente americano Joe Biden di porre fine alla ventennale missione militare in Afghanistan entro il prossimo 11 settembre – anniversario degli attacchi di Al Qaeda contro Washington e New York nel 2001 – a riproporre lo scenario di Kabul genesi e teatro di nuovi temibili conflitti. Il passo di Biden ha innescato un ritiro accelerato delle rimanenti truppe Usa e Nato, italiani inclusi, e quando l’ultimo reparto avrà lasciato l’Afghanistan – forse già il 4 luglio – la sorte del governo guidato da Ashraf Ghani dipenderà solo e unicamente da un esercito di 300 mila effettivi addestrato e armato dalla Nato.
Sulla carta è una forza militare che non ha rivali locali in grado di sfidarlo e, inoltre, può contare sul sostegno di una popolazione – per tre quarti sotto i 30 anni – in gran parte nata e cresciuta dopo la caduta del regime medievale dei talebani del Mullah Omar nell’ottobre del 2001. Ma la verità sul terreno, come ammette l’inviato Usa Ross Wilson, è che «i gruppi jihadisti rimangono una potente forza in Afghanistan» come conferma il fatto che i taleban, sostenuti da ciò che resta di Al Qaeda, assediano la città di Kandahar e controllano vaste aree di territorio. Per non parlare del sanguinario Stato Islamico (Isis), con la roccaforte a Nangarhar, autore del recente feroce assalto a una scuola femminile nonché intenzionato a conquistare Kabul per far risorgere in tempo record “l’Emirato della Jihad” crollato nel 2017 a Raqqa e Mosul. La previsione de “l’Afghanistan Study Group” del Congresso Usa è che i taleban – autori di continui attacchi contro civili e militari afghani – possano rientrare a Kabul in un periodo compreso «fra 18 mesi e 36 mesi», polverizzando uno Stato musulmano moderno il cui maggior risultato è stato garantire l’istruzione pubblica alle donne. Come riassume Kenneth McKenzie, capo del CentCom del Pentagono, «l’esercito afghano senza il sostegno Usa è destinato al sicuro collasso». Ciò significa che i mujaheddin jihadisti dopo aver obbligato l’Urss ad abbandonare l’Afghanistan nel 1989 oggi possono parlare di una nuova “vittoria” davanti alla conclusione della più lunga guerra della Nato, pur non avendo mai potuto sfidarla militarmente sul terreno. Ai loro occhi si tratta della riaffermazione della validità del pensiero di Osama bin Laden sulla superiorità jihadista nei confronti dell’Occidente «perché voi avete gli orologi – come disse in un’intervista – e noi il tempo». Bin Laden è stato eliminato dalle truppe speciali Usa ad Abbottabad, Pakistan, nel 2011 e del suo network di morte resta assai poco ma quanto sta maturando a Kabul consente ad Al Qaeda di sognare il riscatto. Anche perché sul lato pakistano del confine i miliziani del “Tehreek-e-Taliban” restano pericolosi. Per questo l’ex Segretario di Stato Hillary Clinton teme «enormi conseguenze» dal ritiro Usa ovvero «la ripresa delle attività dei terroristi islamici» e «una nuova guerra civile con milioni di profughi afghani in fuga». Anche Condoleezza Rice, consigliere nazionale di George W. Bush quando decise l’intervento, vede il rischio del «ritorno del terrorismo» perché i taleban oltre a rivendicare come “una vittoria” il ritiro della Nato si affretteranno a ricostruire il network che partorì il piano per l’attacco all’America. Ciò significa che i gruppi jihadisti, le cui roccaforti sono oggi nel Sahel, in Somalia e Yemen, potrebbero presto tornare a insediarsi sulle montagne afghane.
È uno scenario da brividi che la Casa Bianca prova a esorcizzare esprimendo fiducia nella capacità del nuovo Stato afghano di «stare in piedi da solo» ma i taleban già pregustano la vittoria sul «più arrogante degli imperi» come lo definisce il loro vice comandante, Sirajuddin Haqqani. E al loro fianco hanno il tacito avallo dei militari di Islamabad, che non hanno mai cessato di foraggiarli.
Pechino guarda tutto ciò con un misto di interesse e preoccupazione: da un lato è infatti l’alleato chiave di Islamabad in Asia – contro il rivale di New Delhi – ma al tempo stesso teme che l’Afghanistan jihadista possa sfuggire ancora una volta di mano e destabilizzare il confinante Xinjiang, la provincia cinese a maggioranza musulmana dove vogliono insediarsi le cellule separatiste del “Movimento islamico del Turkestan Orientale”. La Cina ha già iniziato a operare in Afghanistan, con il ministro degli Esteri Wang Yi, triangolando con il Pakistan per trasformare Kabul in un tassello della nuova Via della Seta – la “Belt and Road Initiative” – destinata a unire il mercato di Pechino con l’Europa Occidentale attraverso l’Asia centrale. È difficile prevedere se Pechino riuscirà a imporre la propria influenza economica o dovrà difendersi dalle infiltrazioni jihadiste attraverso il corridoio di Wakhan – creato nel 1893 per segnare il confine fra impero russo e impero britannico – ma il bivio fra questi scenari lascia intendere la pericolosità della partita che sta per aprirsi. Come se non bastasse c’è anche l’ombra di Recep Tayyip Erdogan che si staglia sul ritiro della Nato. Ankara ha siglato con l’Alleanza un accordo che la trasforma nel gestore dell’aeroporto internazionale di Kabul, considera l’Afghanistan un tassello dell’Asia Centrale a cui è legata da radici antiche e punta a farlo entrare nel “Consiglio turkico” creato nel 2009 su iniziativa del presidente kazako Nursultan Nazarbajev per riunire tutte le nazioni asiatiche con legami culturali ed economici con la Turchia ovvero Uzbekistan, Azerbaijan, Kyrgyzstan e lo stesso Kazakistan. La recente campagna militare azera vinta in Nagorno Karabakh contro l’Armenia grazie agli armamenti turchi ha dimostrato con quanta determinazione Erdogan vuole consolidare l’influenza neo-ottomana in Asia Centrale. E proprio i legami con le tribù uzbeke e tagike – presenti nel settentrione afghano – lo trasformano nel più importante partner della possibile riedizione de “l’Alleanza del Nord” che si opponeva ai taleban anche nel 2001 e sostenne l’intervento Usa deciso dal presidente Bush. Ciò significa che se i talebani, di etnia pashtun, andranno verso il Pakistan (e Pechino), tagiki e uzbeki potrebbero invece guardare ad Ankara, impegnata nell’ambizioso tentativo di trasformare l’Asia Centrale in una sua regione cuscinetto fra Cina e Russia. Con la maggioranza etnica Hazara stretta nel mezzo. Come se non bastasse, il ritiro Usa e Nato da Kabul spinge l’India di Modi a tornare ad accendere i fari sull’Afghanistan per ostacolare in ogni modo Islamabad, senza dimenticare l’Iran degli ayatollah intenzionato a riprendere il controllo delle porose regioni ai propri instabili confini orientali. Ce ne è abbastanza per dedurre che Kabul sta per tornare, ancora una volta nella storia, a scuotere il mondo.