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 2021  giugno 06 Domenica calendario

Intervista a Giulia Veronesi

Giulia Veronesi dirige il programma di Chirurgia Toracica Robotica del San Raffaele. È stata una delle prime due italiane a operare i polmoni col robot. Ora, butta lì, «siamo rimaste poco più di due. Le donne. Si sono aggiunti gli uomini». Racconta che la chirurgia mininvasiva è il suo pallino anche «per educazione familiare». Il papà Umberto Veronesi aveva promosso, in senologia, la quadrantectomia contro la mastectomia e quando l’aveva presentata a un convegno a Ginevra nel 1969 era stato ascoltato quasi con fastidio. Lui ricordava: «Ero giovane, ero italiano, venivamo considerati scienziati di serie B». Anche Giulia è poco più che trentenne quando, nel 2007 si mette in testa di andare al Memorial di New York per studiare il trattamento del polmone coi robot: «Avevo intravisto la possibilità di operare senza taglio, tenendo la garanzia di eliminare del tutto tumore e metastasi». Dei tremila interventi praticati da allora, circa 700 sono robotici e buona parte del totale va imputato ai danni da sigarette: «L’85% dei pazienti operati di tumore al polmone sono fumatori», spiega lei, che ora ha scritto Hai da spegnere?, edito da Sonzogno nella collana «Scienze per la vita» ideata e diretta da Eliana Liotta. 
Perché, da chirurgo, un libro sul fumo? 
«Perché fa sette milioni di morti all’anno e andrebbe considerato una pandemia. Mi occupo di prevenzione di tumore al polmone dal 2000, con la ricerca, la divulgazione, le campagne antifumo, la diagnosi precoce. Ho coordinato il progetto di screening con la Tac a basso dosaggio, validato da tutte le società internazionali come procedura raccomandabile per chi ha fumato per vent’anni o ha smesso da meno di 15 e, ora, gli Stati devono attrezzarsi per fornirlo. Qui al San Raffaele, sono attive ricerche anche sulla biopsia liquida per fare la diagnosi tumorale con un prelievo, sull’intelligenza artificiale che può riconoscere un nodulo maligno in una Tac, sull’immunoterapia, e cerchiamo farmaci che interrompano la cancerogenesi prima che si formi il tumore». 
Lei su quali ricerche è impegnata? 
«Un po’ su tutte». 
Il sottotitolo del libro è: «Dieci ragioni che non vi hanno mai raccontato per abolire il fumo». Quali hanno colpito di più anche lei? 
«Quelle sull’impatto sociale. Per esempio, lo sfruttamento del lavoro minorile nei campi di tabacco. E sulla salute dei coltivatori, che hanno livelli di cotinina più alti dei fumatori. E poi, l’impatto ambientale. L’idea è arrivata incontrando un fotografo che ha esplorato tutta la filiera del tabacco, dalla coltivazione alla vendita delle sigarette: lì ho iniziato a pensare ad aspetti del fumo non solo individuali». 
Davvero le sigarette inquinano in modo paragonabile al traffico? 
«L’Istituto Nazionale dei Tumori ha rilevato che il fumo di tre sigarette in una stanza produce concentrazioni di polveri sottili dieci volte superiori a quello di un motore diesel lasciato acceso per mezz’ora al chiuso. Ma l’impatto ambientale è legato anche ai temi della deforestazione e dell’acqua. Per esempio, l’essicazione del tabacco richiede di bruciare molti alberi e comporta forti emissioni di Co2». 
Avendo un padre luminare e anche una mamma medico, quanto ci ha pensato prima di scegliere Medicina? 
«Sapevo che mi avrebbe fatto questa domanda e ho preparato la risposta. Fino a poco tempo fa, dicevo che, avvicinandomi all’esame di maturità, avevo capito che volevo studiare tanto e m’interessava uno sbocco professionale che mi facesse sentire utile. Poi, oggi, pensando a cosa risponderle, mi è venuto in mente che, ai tempi, ero un po’ depressa: sentivo il bisogno di dare un significato all’esistenza». 
Depressa come? 
«Sono stati anni difficili, un po’ di isolamento e un po’ di solitudine. Avevo tanti amici, ma nel profondo mi sentivo sola e questo mi ha spinto a fare qualcosa che mi mettesse in contatto con gli altri esseri umani». 
Era la solitudine di chi sente più di altri? 
«Può essere. O anche, forse, il fatto di vivere in una famiglia un po’ complessa: in casa eravamo sei fratelli, con due genitori molto presi e tanti di noi a contendersi la loro attenzione». 
Ne parla con un filo di voce. 
«Sono dinamiche non facili». 
Prima femmina dopo quattro maschi: la lotta per l’attenzione era anche muscolare? 
«Anche, ma era soprattutto una lotta per imporre i miei diritti in quanto femmina. La nostra famiglia, come tutte, era di tradizione patriarcale: si sentiva un tema di ruoli in casa». 
I quattro maschi deputati a mettere disordine e le sorelle a fare ordine? 
«Così no, ma le aspettative di mia madre erano che noi figlie dovessimo aiutare e i maschi no. A tavola, sparecchiavano solo le due femmine e mamma. Io mi scontravo apertamente con lei e, silenziosamente, col papà. Però, su orari, uscite, controlli hanno lasciato pari libertà sia ai maschi sia alle ragazze». 
Con la mamma si è riconciliata? 
«Per me, è stata uno stimolo e un esempio: ha avuto un figlio ogni due anni e non ha mai smesso di lavorare; con tutta quella marmaglia di bambini che ha sempre seguito, ha anche avuto una carriera. So che ci portava in ospedale e ci allattava fra una visita e l’altra». 
Lei ha due maschi e una femmina, lavorando tanto, non ha temuto che anche i suoi figli soffrissero la carenza di attenzioni? 
«Ho cercato di tenere a mente come mi sentivo io da piccola e di non permettere che succedesse anche a loro. Per esempio, la sera, sono sempre stata almeno due ore coi bambini». 
Suo padre raccontava che, a volte, lei accorreva al richiamo dei figli fingendo di aver finito di lavorare, per non far sentire in colpa né loro né suo marito. E che poi, di notte, riaccendeva il Pc quando tutti dormivano. 
«Papà lo scoprì quando gli chiesi come faceva a lavorare a casa nonostante la cagnara. Mi diede una risposta indicativa della cultura del tempo. Disse: “Capisco bene che per te è diverso, io ho delegato la gestione dei figli, ma so che, per una mamma, il pianto di un bambino è un richiamo ineludibile”. Riconosceva che per me era più difficile. Mi fece piacere». 
In un libro, suo padre scrisse che lei e suo fratello Paolo, per affermarvi nella sua stessa professione, avete fatto uno sforzo doppio, per via del cognome. 
«A volte colleghi e superiori tendono ad attribuire il tuo valore a una sorta di vantaggio di famiglia. E c’è un tema più personale, legato al processo di autostima». 
Perché ride? 
«Perché puoi fare tantissime cose, ma non è mai abbastanza per potersi confrontare con una storia di successo come quella di papà. Poi, piano piano, più avevo riconoscimenti dalle comunità scientifiche, dagli indici bibliometrici, più la sicurezza aumentava». 
Davvero all’inizio negava la parentela? 
«Alla domanda “sei figlia di Veronesi?”, la battuta solita era: certo, mi chiamo Veronesi». 
Tuttavia, dopo aver girato vari ospedali, e prima dell’Humanitas e poi del San Raffaele, nel 2000, passò per lo Ieo di suo padre. 
«Da specializzanda in Chirurgia Toracica, avevo fatto un anno lì, poi sei mesi in Francia e, mentre ero a Parigi, mi chiamò il primario di Chirurgia Toracica dello Ieo. Era il team più valido sia per la clinica sia per la ricerca, quindi desideravo quel posto. Ed ero contenta di lavorare con papà: speravo, nel tempo, di ridurre la distanza emotiva che ci separava». 
Un po’ l’ha ridotta? 
«Sì, mi dava consigli, parlavamo di chirurgia robotica, di screening». 
Suona più da mentore che da padre. 
«Papà aveva tanto autocontrollo emotivo: la ragione doveva sempre prevalere. Per quanto coi malati parlasse molto e fosse sempre sensibile, era molto impegnativo, il ragazzo». 
Fu tra i primi a invocare l’empatia col paziente. L’autocontrollo serve a non farsi contaminare dal dolore? 
«È autodifesa. È una scelta ponderata». 
Suo fratello Paolo, senologo, raccontava che vostro padre arrivò a travestirsi da Zorro per rasserenare il figlio di una malata. Lei ha visto altre scene estreme di empatia? 
«Papà aveva questa autoironia anche a casa. Un giorno arrivò travestito da donna: ricordo questo gigante con parrucca e gonna. Amava fare scherzi. Una volta allo Ieo l’ho visto con una maschera da mostro: andava in giro al bar e in corsia fra i pazienti, tipo Zombie. Per divertimento, per alleggerire il peso della vita». 
È sposata al chirurgo Paolo Bianchi, specializzato in Chirurgia Robotica Addominale, suo marito poteva essere solo un medico? 
«Probabilmente. Ma non l’ho conosciuto in ospedale, era amico di amici, eravamo a Courmayeur, io ero sola e mi sono aggiunta al loro gruppo. Se non fossi uscita quel giorno a quell’ora, non l’avrei mai incontrato. Era pure il primo gennaio del 2000, io ero single da poco, stavo dai miei, cosa che non accadeva da 15 anni, e pensavo: il nuovo millennio comincia bene. Non volevo neanche andare a sciare, ma era una giornata talmente bella che mi sono sforzata. Davvero destino». 
A dicembre, eravate già sposati. 
«E pure senza convivere, a scatola chiusa. A 30 anni, sai subito se una persona fa per te». 
A 27 anni dalla laurea, è andata come voleva: è riuscita a sentirsi utile? 
«Prima è venuto a trovarmi un paziente, ha 34 anni, aveva un tumore enorme che non rispondeva alle terapie. L’operazione poteva avere complicazioni mortali, prima di proporgliela non ho dormito per giorni. Sono intervenuta col cardiochirurgo e il chirurgo vascolare e anche loro mi hanno dato fiducia. Abbiamo tolto tutta la malattia. Poco fa era qui, sulle sue gambe».