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 2021  giugno 05 Sabato calendario

«I discorsi sulle donne danno un maggiore piacere che le donne stesse». Parole di Vitaliano Brancati


«Uhuuu», commentano i giovani di Catania al passaggio di una signora avvenente, e vale, la visione di una ragazza prosperosa, a imperlare di sudore la fronte di molti di loro, «gli ingravidabalconi». «Occiu vivu», occhio vivo, si danno di gomito, mugolando sul piacere che dà un amplesso. Tutto questo in una città teatro, «dove i discorsi sulle donne danno un maggiore piacere che le donne stesse». E quando se ne innamorano «già l’amano, la chiamano a bassa voce con un vezzeggiativo, in un baleno vivono tutta una vita con lei: viaggi, notti insonni, amabili litigi, serate estive in terrazzo, bagni di mare con lanci di sabbia e spruzzi d’acqua». Una madre, insomma, che «li rende padri di un bambino perfetto».
Rileggere Vitaliano Brancati. Il suo Don Giovanni in Sicilia, il romanzo che nel 1941 rivelò il gallismo agli italiani, è la satira spietata di una società, della sua inconcludenza. È la storia di Giovanni Percolla, il classico mammone che a quarant’anni vive accudito da tre sorelle, ( «Giovanni, sei sudato?», gli chiedono quando rientra) e che ha la testa piena della parola donna. Nell’esemplificazione dei difetti dell’uomo meridionale, e dell’ossessione verso il sesso, che lui e i suoi amici catanesi nutrono senza requie, c’è la denuncia feroce di una società soffocante, pigra e reclinata su sé stessa. «Vent’anni continui di amore hanno privato la vita di Panarini di molti episodi. Un uomo non può, nello stesso tempo, agire e ricordare: Panarini ha preferito ricordare, e il solco più profondo, che abbia finora lasciato il suo passaggio sulla terra, lo si trova nel sofà».
Nell’estate del 1982 Leonardo Sciascia dedicò la sua rubrica televisiva su Mixer a Il sogno di un valzer, una raccolta di racconti di Brancati curata da Enzo Siciliano, «un libro di deliziosa lettura», disse, «uno di quei libri che riconciliano con la lettura con la quale in questi ultimi tempi non siamo in buoni rapporti per quello che si produce». E c’era, insieme all’invito a leggere uno scrittore che aveva avuto come pochi «il gusto, e il disgusto, nella rappresentazione della società italiana», l’amarezza per come era stato, già allora, «totalmente dimenticato».
In pochi, anche oggi, leggono Brancati. Ed è un peccato, perché è stato uno scrittore di stile sopraffino. L’umorismo con cui ha saputo raccontare l’anima siciliana, delineandone il doppio fondo ironico e amaro, è anche una fotografia acutissima del fascismo.
Il trasporto verso il sesso è centrale anche ne Il bell’Antonio, di cui si ricorda il film con Marcello Mastroianni e Claudia Cardinale. Il protagonista, Antonio Magnano, un giovane bellissimo, di cui tutte le donne di Catania sono pazzamente innamorate, sposa Barbara Puglisi, ma il matrimonio non sarà mai consumato, per l’impotenza dello sposo. È uno scandalo che il padre di Antonio commenterà così: «Non ho più un figlio!» E quando, dopo tanto tormento e vergogna, Antonio rimetterà piede in città, scoprirà che le donne lo bramano ancora di più per la sua fama d’impotente: «Non appena avremo chiuso la porta il sangue ti svamperà», gli dirà una donna, nello slancio di una sfida. È pieno di sottotesti, a cominciare dall’impotenza come impossibilità nel reagire al regime.
Squadernati, in tutti i romanzi e nelle opere teatrali come La governante, ci sono i vizi che ci contraddistinguono ancora adesso. Il fatalismo. Il carattere anarchico. L’individualismo sfrenato. Il” tengo famiglia”. Brancati è il grande fustigatore di ogni conformismo. E allora come si spiega questo oblio? Forse per il suo essere non inquadrabile, da irregolare.
È stato un uomo pieno di tormenti. Nato a Pachino nel 1907, da giovane fu fascista. Prese la tessera nel 1924. Pubblicò un dramma, Everest, che consegnò personalmente al Duce. Scrisse di questo incontro in Critica fascista, la rivista di Giuseppe Bottai, e si stenta a riconoscere, in quelle pagine untuose, il grande scrittore del decennio successivo. La crisi matura con il trasferimento a Roma, nel 1932: l’uscita dalla provincia, l’incontro con intelligenze come Leo Longanesi e Alberto Moravia gli apriranno gli occhi sulle ottusità del Ventennio. E il non essersene avveduto prima sarà il cruccio di un’esistenza. Scrive il Don Giovanni in Sicilia e Gli anni perduti (1943), e da quel momento in poi prevale un risentimento verso gli errori giovanili, che trova nell’ironia amara un registro con cui fare i conti con sé stesso.
Sciascia lo incontrava, da studente, all’Istituto magistrale di Caltanissetta, dove Brancati insegnava di malavoglia, sempre scuro in volto, annoiato. Aveva preso a collaborare con L’Omnibus di Longanesi, con una lettera al direttore inviata ogni settimana dalla Sicilia, e che fece dire a Sciascia: «Così bisogna scrivere, così voglio scrivere». E siamo al Brancati saggista che vale come il romanziere. I pezzi per L’Omnibus si trovano nelle Lettere al direttore, (Bompiani). Invece il Diario romano contiene gli scritti usciti nel 1947 su Tempo illustrato e dal 1948 al 1954 sul Corriere della Sera: pagine imprescindibili per chi ama la storia del nostro Paese. Nel 1941, durante le prove de Le Trombe d’Eustachio, un suo testo rappresentato al Teatro dell’Università, conosce l’attrice Anna Proclemer, bellissima e più giovane di sedici anni. Come Giovanni Percolla, che si innamora di Ninetta prima di conoscerla, s’invaghisce all’istante. Un amore pieno di incomprensioni, di cui si trovano tracce folgoranti nelle Lettere da un matrimonio. Scrive Brancati, il 28 novembre 1946: «Una delle cose più immorali che accadono nel Sud è il voler bene ai figli più che alla propria moglie o al proprio marito».