Robinson, 5 giugno 2021
Intervista a Damien Hirst
«Non mi spaventa esporre accanto a Caravaggio, Bernini e Canova… sono un artista anch’io». Damien Hirst sta portando le sue opere alla Galleria Borghese e non fa una piega. Appare nello studio londinese di Soho con tuta e cappuccio verde fluorescente; sullo sfondo pareti bianche, macchie di vernice colorata e una scala d’acciaio da spostare all’occorrenza. È un continuo work in progress. A trent’anni esatti dal primo squalo in formaldeide, a quattordici da For the Love of God, il teschio di platino tempestato di 8601 diamanti, a tredici dall’asta che raccolse 200 milioni di dollari mentre falliva la Lehman Brothers, è tempo di nuove scommesse, con sprezzo del pericolo. In Archaeology Now (a cura di Anna Coliva e Mario Codognato, dall’8 giugno al 7 novembre; il progetto è supportato da Prada) più di ottanta sculture, dipinti e oggetti della serie Treasures from the Wreck of the Unbelievable, esposti in stile kolossal alla Collezione Pinault di Venezia nel 2017, si confondono tra i capolavori della raccolta del cardinale Scipione. Nella sala dei Caravaggio, che la direttrice Francesca Cappelletti ha voluto tutti per la prima volta senza vetri, le Meduse di Hirst guardano il David, la Madonna dei Palafrenieri, il Bacchino malato, il San Girolamo, il Battista e il Ragazzo con la canestra di frutta. Più in là, Paolina Borghese di Canova deve vedersela con una sua replica in marmo rosa installata esattamente al piano sopra di lei. Per non parlare delle idre e delle dee Kali, dei cerberi e delle regine con il volto di Rihanna che intendono sfidare Apollo e Dafne e il Ratto di Proserpina di Bernini. È tutto un gioco di rimandi, di marmi, ori e malachite che sa di antico e di fantasy. Il ragazzo di Leeds (classe 1965) diventato re Damien, che ha fatto impallidire i critici e inchinare i collezionisti del mondo, punta a entrare nella storia dell’arte da vivo e dalla porta principale. Senza darlo troppo a vedere, però.
Davvero non ha nessun timore, Mr Hirst?
«Non mi interessa il confronto. Il mondo in cui viviamo è molto diverso rispetto a quello dei maestri che sono alla Galleria Borghese. Oggi si è artisti in maniera differente».
Ma stiamo parlando di Bernini…
«Bernini mi fa impazzire. Quando vidi per la prima volta i
Prigioni di Michelangelo al Louvre, mi chiesi: come diavolo è riuscito a ricavare tutto questo dalla pietra? Quando poi mi sono imbattuto in Bernini alla Galleria Borghese, ho capito che andava oltre Michelangelo. Come artista non credo nel genio, credo nella libertà di espressione. Tutti possono arrivare a diventare artisti. Rettifico: non credo nel genio, eccetto che per quanto riguarda Michelangelo e Bernini ( ride). Certo, anche qualche pittore, non solo loro».Qualche pittore… le sue Meduse adesso sono accanto a Caravaggio.«Sì, Caravaggio mi piace, per carità. Ma poi è una questione di gusti. Preferisco i dipinti meno puliti, la pennellata sporca di Tiziano, Rembrandt, Goya, Soutine, Bacon, Freud. Se mi dicessero di scegliere tra Bacon e Freud, sceglierei Bacon. E così, se dovessi scegliere tra Tiziano e Caravaggio, sceglierei Tiziano. La luce di Caravaggio è stupefacente. Ma io amo le cose che cadono a pezzi, che si corrompono».In passato ha detto che i musei sono luoghi per artisti morti. Ora è alla Galleria Borghese.«Quando l’ho detto, ero troppo giovane, non avevo il senso del tempo. Allora dicevo pure che non mi fidavo delle persone che non fumano. Adesso ho smesso di fumare e posso dire che amo i musei e non mi fido delle persone che fumano».È vero che ha capito di essere un artista quando, da bambino, ha dato a sua madre un disegno e lei l’ha appeso? Tutti i bambini disegnano.«Sì, mia madre lo mise sul frigorifero, credo. È vero: tutti i bambini disegnano, ma poi smettono. Io non mi sono mai fermato».Lei ha avuto un’educazione religiosa cattolica.«Sono stato educato secondo il cattolicesimo fino ai 12 anni. Ho fatto la prima comunione. Poi i miei genitori hanno divorziato e mia madre si è allontanata dalla chiesa perché non le davano i sacramenti. Per me Dio era una sorta di Babbo Natale. Avevo un immaginario molto forte in testa, ma alla fine avevo difficoltà a credere veramente in Dio. Eppure la mia fede nell’arte è molto simile a quello che può essere la fede nella divinità. È complicato da dire, credo nel credere. La mia fede nell’arte è qualcosa di molto religioso. Non posso scappare dall’immaginario con cui sono cresciuto.Nessuno può».Da lì vengono anche i simboli della morte che ricorrono spesso nelle sue opere?«Nell’arte c’è vita, non morte. Mi interessa confrontarmi con quello che non possiamo evitare perché dobbiamo finire per accettarlo. E la morte è qualcosa che non puoi evitare. Avevo una casa in Messico dove il senso della morte è completamente diverso: si celebra, si festeggia, a fronte di una vita spesso violenta. Nel sud dell’Italia in parte è così, penso ai Cappuccini di Palermo. Non c’è morte senza vita. Ma l’arte deve restituire un’energia positiva, sempre. L’arte deve dare speranza».La sua mostra si intitola “Archaeology Now”. Con la pandemia tutto è diventato archeologia, il presente è qualcosa di completamente diverso dal passato prossimo.«Abbiamo bisogno del passato. Crediamo nel passato perché credere nel presente è più difficile, anche se ci tocca. In fondo, la stessa archeologia scava per dare certezze a noi oggi. Non c’è una verità, ma dobbiamo trovarne una. E allora occorre inventarla. L’idea che c’è dietro la serie di sculture e oggetti di Treasures from the Wreck of the Unbelievable è proprio quella di rubare dal passato per creare un nuovo presente, fondare l’illusione di una verità con una nuova mitologia. E i materiali devono essere autentici. Sono stato alle cave di marmo di Carrara e mi interessa lavorare con le pietre. In Thailandia, un giorno, volevo comprare qualche antichità da portare in Inghilterra. Così mi sono rivolto a un amico, chiedendogli se potesse trovarmi qualche pezzo autentico, visto che ci sono molte copie in giro. Lui mi ha detto: “Certo: li facciamo mentre aspetti”. L’antichità e l’autenticità sono una questione di tempo».Sembra ossessionato dalle opere in serie e dalle repliche. Qualcuno direbbe anche per ragioni economiche.«Amo l’icona e l’unicità. Ma soloFor the Love of God,il mio teschio di diamanti, è unico. Come artista voglio coinvolgere quante più persone possibili in un rapporto diretto con la mia arte. Pensiamo alla Gioconda. Vederla davvero attraverso quel vetro, in mezzo alla folla, è impossibile. Non mi va che accada questo con le cose che faccio. In origine, gli Spot Paintings dovevano essere una serie infinita. Mi piace l’idea di un processo che non finisca mai, una macchina che sforni dipinti per sempre. Quando compri un paio di sneaker le fai tue, sono uniche per te.Anche se in giro ce ne sono altre. Ecco, le mie opere mirano a ottenere lo stesso risultato: la diffusione e l’unicità. E poi Andy Warhol diceva “Se la gente critica il tuo lavoro, tu fanne di più"».Esattamente trent’anni fa, nel 1991, realizzò “The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living”, il suo primo squalo in formaldeide. Come le venne in mente?«Come tutti i ragazzini cresciuti negli anni Settanta, avevo visto Lo squalo di Spielberg, ricavandone la giusta dose di paura. Una volta diventato artista, ho iniziato a coltivare l’idea di esporre uno squalo in una galleria. Avrei potuto dipingerlo, ma non sarebbe stato abbastanza spaventoso.Non mi interessava realizzare qualcosa che fingesse di essere un pescecane. Volevo che fosse vero, enorme e che spaventasse da vicino. Quando ho incontrato Charles Saatchi (il pubblicitario e gallerista che lanciò Hirst e gli Young British Artists, ndr), ho capito che finalmente avrei potuto fare esattamente quello che volevo. Per portare uno squalo vero in mostra ci volevano soldi, tanti soldi. E Saatchi li aveva. Mi ha detto solo: “Fallo”. Ed io l’ho fatto».
Nel settembre del 2008, mentre falliva la Lehman Brothers, realizzò 200 milioni di dollari in due giorni, mettendo le sue opere all’asta da Sotheby’s. Che rapporto ha con il mercato?«La gente non ama che gli artisti facciano soldi e io non sono cresciuto in mezzo a tanta fortuna. Ma dopo il teschio di diamanti – un oggetto per cui qualcuno avrebbe potuto uccidere – si è reso necessario che scendessi a patti con il denaro. Non bisogna averne paura. Ho capito che avrei dovuto utilizzare i soldi in una maniera creativa. E così arrivò l’asta del 2008. Che posso dire? È una cosa folle che mi è successa. Era un momento assurdo ed ero spaventatissimo. Essere artisti significa anche intercettare un pubblico di acquirenti. Per me vendere le opere è una gioia: il prezzo non importa. Il problema vero, però, è quando il business prevale e l’arte sparisce. Ecco, allora sei spacciato».La pandemia sta cambiando il mercato?«Ci sarà meno speculazione. Ma per quanto riguarda i super collezionisti cambia poco. Con la pandemia si è passato più tempo a casa, c’è stato bisogno di più quadri da mettere alle pareti».Come trascorre una giornata tipo Damien Hirst?«Ho una routine da impiegato. Da quando ho smesso di bere, quindici anni fa, lavoro come se fossi in ufficio: dalle 9 del mattino alle 5 del pomeriggio. Prima preferivo la notte, avevo una vita più disordinata. Non ho sofferto il lockdown: ho dipinto e lavorato senza assistenti. Sono stato con i miei figli. Adoro la televisione, guardare lo sport – lo snooka – e le serie tv: ho appena finito di vedere Suburra, Gomorra e Fauda: meravigliose!».Durante il lockdown, si è messo a dipingere i ciliegi in fiore, come ha fatto David Hockney. Ormai è un provocatore pentito?«Ma no, ho usato i ciliegi del mio giardino nel Devon come orologi naturali nel pieno della pandemia. La loro fioritura scandiva il tempo. Amo David Hockney, è un grande. Abbiamo le stesse iniziali e siamo entrambi dello Yorkshire».In passato Hockney l’ha accusata di non realizzare tutte le opere con le sue mani.«È una questione complicata. Se sei soltanto un pittore, lo puoi fare. Uno scultore meno. Io mi considero più simile a un architetto. Mi piacerebbe saper fare tutto quello che c’è al British Museum e al Museo di Storia naturale. Con le mie sole mani sarebbe impossibile. Ora ho una quarantina di collaboratori. In passato erano anche più di trecento. Ma poi: siamo sicuri che Bernini scolpisse interamente da sé? Alla fine, conta realizzare qualcosa che sia esattamente conforme a quello che vuoi».Ci sono artisti che segue con interesse?«Ammiro Banksy perché ha fatto tutto da solo. Gli artisti sono soliti lamentarsi di non riuscire, di non avere spazio e opportunità. Lui non ha aspettato nessuno. Il pubblico e lo spazio se li è andati a cercare. È un grande esempio.Ha portato direttamente l’arte alle persone, mettendola in strada. È una cosa incredibilmente generosa da fare.Lo seguo da tanto tempo. Una volta, un mio gallerista mi disse che Banksy non era importante per il mondo dell’arte. Io gli ho risposto: “Ma è importante per il mondo reale”. Rispetto al mondo reale, il mondo dell’arte non è nulla».Sa chi è davvero Banksy?«L’ho incontrato molto tempo fa. Credo di aver visto il vero Banksy, ma se poi sia stato rimpiazzato da qualcun altro non mi sorprenderebbe. Ho anche conosciuto gente che sosteneva che Banksy fossi io o 3D dei Massive Attack».Banksy lavora negli spazi urbani con materiali concreti. Lei, invece, sembra sempre più interessato all’arte digitale. Le opere immateriali vendute con criptovalute sono il futuro?«I miei figli, attraverso i videogiochi, hanno comprato per anni figurine virtuali. Da tempo, ormai, acquistiamo musica immateriale su iTunes. Ora è il turno dell’arte. Il mio prossimo progetto, a cui ho dedicato gli ultimi cinque anni, è The Currency, realizzato con la piattaforma Palm. Si tratta di 10 mila lavori su carta che hanno il loro corrispettivo in file digitali NFT».Ma l’arte non dovrebbe essere qualcosa di materiale, di concreto?«Non vedo la differenza tra un NFT e il Fiato d’artista di Piero Manzoni. Se Bernini vivesse oggi farebbe NFT, ne sono sicuro. Lo so: la criptoarte o si ama o si odia.Pazienza».Accade con tanta arte contemporanea, in realtà.«Molti dicono di non amare l’arte contemporanea, ma tutti gli artisti sono stati contemporanei nella loro vita.Compresi quelli della Galleria Borghese, anche se lì le opere sono talmente allestite bene che sembrano appena fatte. John Ruskin diceva che c’è una linea che parte dagli uomini delle caverne e arriva fino a noi.Proseguiamo su quella stessa strada. L’arte contemporanea non è qualcosa di strano. Facciamo lo stesso lavoro di prima su un pianeta ormai molto più complicato dal punto di vista visivo. La natura è diventata più oscura, paradossalmente. La pubblicità prima non era così importante. Noi riflettiamo la complicazione del mondo. I tempi non sono più quelli di Bernini, d’accordo. Ma lo scopo degli artisti è sempre lo stesso: portare speranza, ispirare le persone, accendere una luce nel buio».