Corriere della Sera, 5 giugno 2021
I fotografi della violenza
Nel grande mattatoio della Storia non ci sono soltanto vittime e carnefici; ci sono anche gli spettatori della violenza e non poche fotografie hanno colto i loro volti, l’espressione con cui guardano le vittime e gli oltraggi che stanno subendo. Non è facile capire quei loro sguardi ed è ancor meno facile capire se i fotografi che li riprendono vogliono semplicemente documentare ciò che sta accadendo oppure denunciare l’indifferenza e il compiacimento di molti davanti all’umiliazione e alla sofferenza degli altri o magari diffondere invece immagini di comportamenti che approvano.
Il fotografo che, in una strada di Vienna del 1933, nei giorni dell’Anschluss – che trasforma l’Austria da Stato indipendente a Marca Orientale del Terzo Reich – ritrae donne e uomini, in particolare ebrei, oltraggiati e persone intorno a loro che li guardano compiaciuti, chi è? È un professionista che fa il suo mestiere documentando ciò che accade nella realtà e nelle teste delle persone, è un democratico che vuole bollare la brutalità intorno a lui e denunciarla o un antisemita che vuol serbare il ricordo di una bella giornata, stampata nel volto di molti astanti, come il piacere di una scampagnata di cui si vuole avere un ricordo? I volti delle persone ritratte sembrano guardare, in generale, benevolmente quelli che si accaniscono sulle vittime.
Poca cosa, quei servizi fotografici, se si pensa allo sterminio programmato degli ebrei e di molti altri. I grandi artisti della fotografia esprimono nelle loro immagini il loro giudizio, il loro sentimento e la loro creatività, ma una fotografia normale e senza pretese può esprimere, intenzionalmente o no, una verità collettiva più inquietante o anche più verità, diverse e contrastanti. Un grande interprete di queste immagini banali e mediocri, ma talora terribilmente significative, è uno scrittore assai notevole, Martin Pollack. Nel suo libro Topografia della memoria, recentemente uscito in Italia nella bella traduzione di Melissa Maggioni (Keller editore), Pollack si addentra nei gorghi della Storia come sfogliando cartoline trovate da un rigattiere – modesto e terribile album dell’umanità – quasi per scrostare da quelle immagini la polvere dell’oblio che vota a un’ulteriore morte le vittime senza nome. Forse il titolo Topografia della memoria non è adeguato al libro, perché questo non tratta tanto della memoria, ossia del passato, bensì dei tanti strati, antichi o recenti ma sempre presenti, della realtà. Nato nel 1944, giornalista e già corrispondente dello «Spiegel», grande viaggiatore per il quale viaggiare è anche – forse soprattutto – una forma di vita e di scrittura, Martin Pollack è autore di libri inconsueti e affascinanti, narrazioni di luoghi e di paesaggi veri e perciò ancora più fantastici e sorprendenti. Il paesaggio materiale e fantastico della sua fantasia creativa nutrita di precisione è la Mitteleuropa indefinibile e dai molti nomi: Mitteleuropa-austro-tedesca-slava-ebraica, tedeschi e austro-tedeschi, ebrei di tutte le nazionalità e lingue, sloveni, croati, serbi, cechi, slovacchi e cecoslovacchi…
Ho conosciuto Pollack tanti anni fa al Caffè Sperl di Vienna e siamo diventati subito amici, ma soprattutto abbiamo viaggiato insieme in vari angoli di quell’universo. La sua tessera preferita di quel mosaico resta, credo, la Galizia, con i suoi ruteni, inventati secondo alcuni dagli Absburgo per far dispetto ai polacchi o forse ucraini, i lemchi, i boyko, gli huzuli, forse la stessa cosa o quasi.
L’autore degli scatti
È un professionista che documenta la realtà? Vuole denunciare l’orrore o serbarne il ricordo?
Pollack ha dedicato un bellissimo libro di viaggi alla Galizia e alle sue città dai tanti nomi, all’ebraismo orientale chassidico e alla sua prodigiosa imprevedibile ricchezza umana, religiosa e poetica, o al mondo nomade degli zingari dei vari paesi. Ma ha scritto pure dei paesaggi sarmatici e lituani e bielorussi dell’universo totalitario sovietico con le sue tragedie e le sue ecatombi.
Ma è anche autore di un libro di particolare intensità, in cui affronta – con una fermezza oggettiva che fa sentire ancora di più il suo asciutto dolore – la figura di suo padre. Egli porta infatti il cognome del suo padre adottivo; quello naturale era un nazista colpevole di gravi e feroci delitti, morto in circostanze torbide mentre cercava di fuggire. È indimenticabile la fermezza sobria e dolorosa con cui Pollack – nel libro Il morto nel bunker (2004) – fa i conti non tanto con lui ma con ciò che significa tale vicenda per la sua propria esistenza. In generale egli fa parlare non le sue opinioni ma i fatti sui quali esse si fondano e non permette che il suo dramma personale sconvolga l’esattezza del racconto.
Abbiamo viaggiato insieme in Polonia, in vari luoghi e città, negli anni in cui iniziava lo sgretolamento dei regimi comunisti nell’Europa dell’Est. Viaggi pieni di cose, d’incontri; in quegli anni sono diventato amico – e lo sono ancora – di alcuni tra i più grandi combattenti di quelle battaglie per la libertà, ad esempio Adam Michnik, irriducibile nel suo buon combattimento che gli era costato anni di prigione nella Polonia comunista, i quali non gli impedivano di ricordare, bevendo più che gagliardamente, come suo padre ne avesse passati anche di più nelle prigioni della Polonia anticomunista di prima della Seconda guerra mondiale.
Martin Pollack insegna ad ampliare «il ristretto spazio nazionale della memoria, in cui ci muoviamo come gli asini intorno a un mulino», come scrive nella sua Topografia della memoria. Non ho avuto occasione di chiedergli cos’ha pensato e sentito, qualche tempo fa, quando ha visto sfilare nel Rynek Starego Miasta, la grande piazza vecchia di Varsavia a suo tempo distrutta dai nazisti, cortei di ultras polacchi che agitavano croci uncinate e vessilli del Terzo Reich. No, il detto latino si sbaglia, la Storia non è maestra di vita.