la Repubblica, 5 giugno 2021
La moda si fa partito
Tredicimila. Tanti sono, contro i cento di media, i commenti ricevuti dallo scorso 10 aprile da un post di Valentino con l’immagine di un giovane uomo apparentemente nudo, con i capelli lunghi e una borsa poggiata sul piede. L’autoscatto del fotografo Michael Bailey-Gates per la campagna pubblicitaria non è indecente o provocatorio, eppure ha scatenato gli odiatori digitali, che hanno accusato il marchio di “apologia dell’omosessualità”. Nonostante la valanga di critiche anche violente, Valentino non ha fatto marcia indietro, e non ha sconfessato né tanto meno cancellato l’immagine pietra dello scandalo.
Una fermezza che oggi non sorprende, ma che un paio di anni fa non sarebbe stata così scontata. In quanto riflesso del presente e forma d’espressione personale, la moda è sempre stata “politica”, ma solo adesso la società pare aver colto il significato del termine. E mentre prima la discussione sulle tematiche più delicate da parte dei creativi era accolta con diffidenza, ora accade il contrario: il pubblico, soprattutto quello giovane, pretende una presa di posizione chiara dai brand, anche sulle questioni più scottanti. «Fa sorridere che se ne parli come di una novità», riflette l’antropologa Simona Segre Reinach. «Gandhi nel 1931 andò in visita ufficiale a Londra in dhoti, la sua tunica bianca: sapeva che effetto avrebbe fatto vedere lui vestito così accanto a Churchill e al re». Il valore simbolico dell’abbigliamento perciò è ampiamente testato. «L’idea che sia un mondo frivolo è dura a morire, ma la breccia c’è. Penso al lessico femminista introdotto da Maria Grazia Chiuri nel suo Dior. Quel “We should all be feminists”, “Dovremmo tutti essere femministi”, della scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie, stampato sulle T-shirt e ripreso migliaia di volte sui social, ormai è così popolare da essere parte del nostro vocabolario».
Per la verità, negli Usa la correlazione tra moda e politica è un dato di fatto: prova ne è l’analisi compulsiva dei guardaroba delle first lady, dal parka di Zara con scritto “I really don’t care, do you?”, “Non me ne importa nulla, e a te?”, indossato tre anni fa da Melania Trump per una visita nei centri di confinamento degli immigrati clandestini ("Un caso”, disse lei all’epoca, salvo essere smentita di recente dal marito), alla mise di Jill Biden per l’Inauguration Day firmata dal brand sostenibile Markarian. Per gli americani anche le tasche dei tailleur di Hillary Clinton hanno un significato femminista: negli abiti delle donne le tasche sono state inserite solo a cavallo tra XIX e XX secolo come simbolo di progresso. E oltre l’America? «In Africa il rigetto della cultura colonialista sta avvenendo attraverso le collezioni dei giovani designer impegnati a recuperare le proprie radici».
Finalmente la moda ha capito quale sia il suo ruolo, concorda Raffaella Pierpaoli, Head of content and social di Intarget, agenzia di marketing digitale. «Solo di recente il sistema ne ha preso coscienza, e di conseguenza ha capito di dover fare delle scelte di campo». Occorre sempre schierarsi, con la consapevolezza che ci sarà chi non è d’accordo. «Anzi, a maggior ragione: visto che si verrà comunque attaccati, tanto vale esporsi su temi davvero sentiti, che aiutino a trasmettere il messaggio che si vuole».
Un esempio? Il recente boicottaggio subito in Cina dai marchi membri della Better Cotton Initiative, quando hanno smesso di usare il cotone prodotto nello Xinjiang dagli Uiguri, la minoranza musulmana perseguitata dal governo. H&M s’è visto cancellare i propri negozi dalle mappe del Paese, scomparendo virtualmente. Un danno enorme, ma che è servito al colosso low cost per rispondere alle accuse che gli erano state mosse di greenwashing (cioè di essere sostenibili solo a parole). Chiunque sia disposto a perdere tanto per i propri valori è per forza sincero: questa è la conclusione a cui spinge la vicenda. «Nessuno nega che questa politicizzazione sia anche una strategia, ci mancherebbe. Ma ora il pubblico da un marchio pretende chiarezza: sta ai brand decidere come presentarsi». Oggi chi fa politica con la moda ragiona sulla lunga distanza. «Noto ancora uno scollamento tra chi interagisce con i marchi via social e chi entra nei negozi», prosegue Simona Segre Reinach. «Il sistema è in piena evoluzione, e sta cambiando pure il pubblico di riferimento. Ma serve tempo».
Anche perdere follower per le proprie posizioni, che sia l’appoggio a Black Lives Matter o l’invito a comprare meno abiti come fa Vivienne Westwood, è un buon segno. «Significa che si è rilevanti, che la società bada a ciò che si fa», ragiona Raffaella Pierpaoli. «L’errore da non commettere è agire solo perché si pensa che il pubblico possa apprezzare, o per fare leva sull’emotività. Certo, chi è del settore ha imparato a gestire queste tematiche, ma i consumatori sanno distinguere l’impegno reale dalla pura promozione. E non perdonano».