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 2021  giugno 05 Sabato calendario

Pietro Ichino ama i rebus. Intervista

La passione nasce da bambino. Complici le passeggiate in montagna e uno zio cultore dell’arte di giocare con le parole. Così Pietro Ichino si innamora dei rebus, e non li lascia più. Lungo tutta una vita spesa tra Università - docente di Diritto del lavoro alla Statale di Milano - carta stampata, come editorialista del Corriere della sera, professione forense e lungo impegno politico - deputato una prima volta nelle fila del Pci tra fine anni ’70 e primi anni ’80, poi senatore per il Pd e Scelta civica, il defunto partito di Monti - i rebus e i loro enigmi diventano una compagnia costante. «Li faccio per lo più durante i miei frequenti viaggi in treno o in aereo, oppure la sera, quando ho bisogno di far cambiare aria al cervello… Quando incontro un rebus bello e difficile, ci rimugino mentre cammino per strada, mentre vado in bicicletta. Mi è capitato che una soluzione mi venisse al mattino appena sveglio, elaborata dal cervello mentre dormivo: una soddisfazione difficile da descrivere». Dopo oltre mezzo secolo di Settimana enigmistica e dizionario, a imparare parole nuove e spremersi le meningi sulle loro possibili combinazioni, il giurista milanese ha deciso di scriverci un libro, in uscita in questi giorni per la collana «Amletica leggera» di Bompiani diretta da Stefano Bartezzaghi, L’ora desiata vola. Guida al mondo dei rebus per solutori (ancora) poco abili, dove già titolo e copertina sono un omaggio al mondo immaginario e spesso paradossale di questo gioco.
Professore, perché scriverci un libro?
«Dopo tanti anni di passione, mi è venuta voglia di proporre al grande pubblico il fascino di questo mondo. Il mio proposito è di fornire quei pochi strumenti tecnici senza i quali tanti "profani" considerano il mondo dei rebus inaccessibile».
Lei come ci è entrato?
«Da bambino andavo d’estate ospite dello zio Giangiotto, il fratello di mia madre, in montagna, a Cortina d’Ampezzo. La prima volta che andai avevo nove anni. Nel corso delle gite nei boschi e sui sentieri, lo zio mi proponeva di continuo dei giochi con le parole: trovare parole bisenso, individuare endecasillabi nel discorso comune, e altri simili. Poi, tornati a casa, mi insegnava a risolvere i rebus. È da lui che ho appreso il piacere di trovare il significato nascosto delle cose, assistere alla metamorfosi per cui da un testo costruito in modo legnoso con immagini improbabili accostate l’una all’altra scaturisce una frase rotonda, liscia, perfetta. Lo zio Giangiotto conservava anche uno scartafaccio in cui raccoglieva i rebus più belli in cui si imbatteva».
Non solo lui, come racconta nel libro…
«Il suo scartafaccio è andato perduto, ma verso i vent’anni anch’io ho preso l’abitudine di ritagliare e conservare in un quadernone i rebus più belli».
In che senso i più belli?
«In più di cinquant’anni ne avrò incollati 150-200, la maggior parte dei quali ritagliati dalla Settimana enigmistica e da La Stampa. Alcuni rappresentano un’immagine serena, plausibile, coerente, da cui poi si trae un testo che si trasforma in qualcosa di completamente diverso. In altri invece mi attrae il carattere paradossale dell’immagine: ricordo ancora mio zio mostrarmi divertito immagini assurde come quella di un re intento a seminare riso insieme a un prete… Cose che succedono solo nei rebus».
E nei sogni.
«È Freud il primo a dirlo: i sogni mostrano cose dietro alle quali se ne nascondono altre. La parola rebus viene dal latino, significa che una cosa viene detta "con (altre) cose", vuol dire che esiste qualcosa di più profondo che può essere completamente slegato dall’apparenza. Nei sogni viviamo un’esperienza analoga, e il lavoro di scavo per trovare il significato nascosto di quanto abbiamo sognato è simile a quello che si fa per trovare la soluzione di un rebus. È il fascino di questa ricerca che vorrei trasmettere a chi non lo ha ancora conosciuto».
Che caratteristiche deve avere un rebus per definirsi ben fatto?
«Fondamentale è che chi lo affronta possa riporre fiducia nella sua buona qualità, dunque che siano affidabili l’autore e l’editore: impieghi tempo a cercare la soluzione se sai che alla fine non ti deluderà. Sono molto importanti i disegnatori, soprattutto quando sono capaci di trasmettere con il loro tratto un sentimento, uno stato d’animo, fondamentali per arrivare alla soluzione. Una maestra di quest’arte è stata Maria Ghezzi, che si firmava la Brighella».
È morta pochi mesi fa e lei le dedica un rebus di saluto alla fine del libro…
«È stata la più grande disegnatrice di rebus, ma è stata pochissimo valorizzata sul piano mediatico. Per la scrittura di questo libro la andai a trovare e lei mi regalò l’originale, firmato da lei, di uno dei rebus più belli della storia, un grande onore. È mancata all’improvviso a 94 anni, nel febbraio scorso: così nel libro le ho dedicato un’ultima parte di commiato».
È un gioco "aristocratico" o democratico? Lei stesso se lo chiede nel libro, visto che per risolvere i rebus occorre una buona conoscenza della lingua…
«Non c’è dubbio che conoscere bene la sintassi e l’analisi logica conferisca al solutore una marcia in più, ma chi non ha la stessa preparazione può migliorare le proprie conoscenze grazie ai rebus. Per questo li consiglierei anche agli insegnanti di scuola: possono rendere più appassionanti quelle cose noiosissime che hanno afflitto tutti noi alle medie che sono l’analisi logica e grammaticale».
Ha mai provato a risolvere rebus in un’altra lingua?
«Ho provato in inglese e in francese. Ma ho capito una cosa che mi aveva spiegato lo zio Giangiotto: l’italiano, per la sua forte corrispondenza tra fonetica e scrittura, è l’ambiente ideale dei rebus. In inglese, dove l’ambiguità fonetica è fortissima, con lo stesso suono che può corrispondere a scritture diverse, e la stessa scrittura che può corrispondere a suoni diversi, autori e solutori di rebus hanno vita molto più difficile. Questo è un po’ vero anche per il francese, anche se in minore misura. Constato comunque che la rebussistica italiana è molto più fiorente: c’è un’associazione, un congresso annuale, gare di soluzione dei rebus e un concorso annuale per i creatori. Non mi risultano sviluppi altrettanto ricchi nel mondo anglofono, e neppure in quello francofono».
Ha mai partecipato al campionato di solutori?
«No, guardo con ammirazione ai grandi rebussisti ma non mi sono mai cimentato con loro: sono troppo bravi per me!».
Dedica molto tempo ai rebus?
«Mi capita a volte di riflettere sulla soluzione per un’intera settimana, il tempo tra un’uscita della Settimana enigmistica e la successiva. A volte trovo nel sonno la parola che cercavo: ricordo una volta che la soluzione conteneva una parola di quattro lettere che finiva per "P". Mi ero fissato con "stop" e mi arrovellavo nel tentativo di combinare quella parola con il resto del materiale disponibile. Poi, in piena notte, svegliandomi per svolgere una piccola funzione non delegabile, ebbi l’illuminazione: la parola era "flop"! Il bel rebus è come un giallo: la vignetta è disseminata di indizi che bisogna saper individuare, saper leggere e poi mettere insieme».
Lei è un lettore di gialli?
«Sì, li uso per costringermi alla lettura in inglese e francese. Da piccolo, i miei genitori mi consentivano la lettura dei fumetti solo a patto che fossero in inglese o francese: per questo non leggevo Topolino, ma Tintin e Milou. Anche oggi i gialli e i thriller sono un grande piacere che mi concedo, ma solo in lingua originale».
Quali scrittori legge?
«I classici come Simenon. O Agatha Christie, di cui ho letto tutto con grande piacere. Ma anche Ken Follett e John Grisham».
Cos’altro legge?
«Ormai da molto tempo ho preso a rileggere i grandi classici della letteratura francese e russa. E gli italiani: Dante, Ariosto, Manzoni. Riletti tanti anni dopo, mi sembrano completamente diversi da quando li ho letti da adolescente. Anche l’Iliade e l’Odissea sono stati una grande riscoperta, mentre l’Eneide mi ha un po’ deluso».
Anche della politica si dice spesso che è un rebus. Da ex parlamentare, vede analogie?
«La politica che pratichiamo tutti, quella che vede coinvolta l’opinione pubblica, ha la caratteristica di un rebus: presenta immagini al di sotto delle quali sono nascoste altre realtà. Questo è ancora più vero se la politica la si vede dall’interno: la metamorfosi di ciò che appare in qualcosa di notevolmente diverso è incredibile».
Anche il mondo del lavoro è un rebus?
«Anche nel mondo del lavoro l’apparenza non corrisponde alla realtà, va decifrata».
Mi fa un esempio?
«Il blocco dei licenziamenti (deciso dal governo in via emergenziale per tamponare la crisi dovuta alla pandemia, ndr): viene usato per mascherare la realtà, che è la perdita di posti di lavoro. Non difende affatto l’occupazione, ma occulta la realtà di centinaia di migliaia di persone messe in freezer a spese della Cassa integrazione. Eppure, avremmo a disposizione molti più posti di lavoro di quanto non sembri».
Davvero?
«È così. Se le persone che cercano lavoro fossero attrezzate per leggere i meccanismi di quel mondo, potrebbero accedere a grandi giacimenti occupazionali nascosti: mentre la crisi infuria, le imprese cercano persone che non trovano. Il mondo del lavoro è un rebus in cui dietro all’immagine si cela una realtà diversa».
Anche qui un rebus da risolvere…
«I rebus, come gli scacchi, sono una metafora della vita».