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 2021  giugno 05 Sabato calendario

Intervista a Dorothy Allison

Una come Dorothy Allison, un misto di concretezza e ribellione, potresti averla già vista in un film come Nomadland. Impreca spesso e, ancora più spesso, ride, una di quelle risate di gola, liberatorie, di chi ricorda benissimo che cosa ha dovuto passare per arrivare fin qui.
Come molti scrittori, crede nel non tenersi dentro niente. Ha raccontato tutto in libri come La bastarda della Carolina e Due o tre cose che so di sicuro: la disperata povertà di figlia bastarda di una quindicenne della Carolina del Sud, lo stupro reiterato da parte del patrigno dai 5 anni fino all’adolescenza che l’ha anche resa sterile, la fuga da casa e l’inizio della vita da scrittrice, lesbica e militante della seconda ondata del femminismo americano.
Da giovane autrice a New York, dove studiava e si manteneva, si era inventata un pretesto per conoscere la poeta e attivista Audre Lorde: «Mi piace quello che scrivi, mi disse. Da allora, ho cercato di modellare la mia vita sulle cose che aveva scritto lei». Oggi, che per avere 72 anni sta «dannatamente bene» e che vive nel nord della California con la moglie, il figlio trentenne che si è appena reiscritto al college e la paura dello scoppio di nuovi incendi, esce la raccolta Trash, pubblicata per la prima volta nel 1988.
Che cosa prova per questi racconti?
«Ne sono molto orgogliosa. Da poco ne ho riletto qualcuno e mi sono ricordata di quando ero una scrittrice bambina tra i grandi di New York. Prima di allora non mi ero mai trovata vicino a un ricco. I ricchi erano diversi, li guardavo come fossero di un’altra specie».
Cosa direbbe oggi a quella esordiente?
«Sinceramente non credo che avrebbe potuto fare le cose in modo diverso, quindi l’unica cosa che vorrei è farle vedere uno scorcio di questo ufficio (si volta verso le librerie). Molti di quei libri sono i miei. Ah, le direi anche: esci di meno e scrivi di più! L’attivismo politico prende un sacco di tempo e a volte è noioso».
Lei è cresciuta in una famiglia di donne. Quanto l’ha influenzata?
«Profondamente. Non sono solo figlia di mia madre, ma anche delle mie zie. Mi hanno cresciuta, sono state il mio modello di donna adulta, sia in senso positivo che tragico. La loro è stata una vita durissima, ma l’hanno vissuta con senso dell’umorismo e determinazione. Non so se è così anche per gli altri, ma quando nasci povera le persone sono la tua ricchezza. Quello che sono lo devo al fatto di averle viste crescere undici figli, di vedere mia madre svegliarsi alle 5.30 per avere una mezz’ora di calma prima del lavoro, anzi dei due lavori, e poi tornare a casa e prendersi la testa tra le mani per la stanchezza. È così che ho imparato a cucinare. Crescere in povertà ti dà una resilienza che è un tesoro ma anche un danno, perché non ti aspetti molto dalla vita».
Hanno letto i suoi libri?
«Quando mia madre è morta, e io e mia sorella siamo andate a vestirla, in uno dei suoi cassetti ho ritrovato tutti i manoscritti che le avevo spedito. Erano aperti. Non saprò mai se li avesse letti, non ne abbiamo mai parlato, ma mi ha sempre detto di essere orgogliosa di me».
Ha idea di come si faccia a risolvere quello che io chiamo «il problema delle radici», il fatto che vogliamo disperatamente allontanarci da loro, ma allo stesso tempo non desideriamo che tornarvi?
«Si risolve che, quando hai perso il tuo mondo, lo ricostruisci. Io in un certo senso ho perso mia madre e la mia famiglia, ma le ho ricreate sulla pagina. C’è un’ampia parte della Bastarda della Carolina che "è" la mia famiglia: le storie viste con gli occhi di una femminista giovane e testarda. Non volevo fare male a mia madre, ma che la gente la vedesse».
Che cosa caratterizza le sue eroine della working class?
«Portarsi dietro un danno enorme al quale rispondere con un’ostinata determinazione a non venirne distrutte. Dico sempre ai miei studenti: andate oltre le ferite, è la cosa più potente che potete fare e vi salverà la vita. L’unica altra opzione è restare a terra e morire».
A lei cosa l’ha salvata?
«Penso sia stata una questione di fortuna. Il mio patrigno avrebbe potuto uccidermi mille volte, e forse gli sarebbe anche convenuto perché io non sarei mai potuta restare zitta, mantenere quei segreti. Bisogna sempre parlare: se non quando si è bambine, almeno quando ci si riesce a sottrarre agli abusatori».
Si è mai riconciliata con il maschile?
«No, e non so nemmeno cosa possa voler dire! (ride) Sono lesbica, sto con la stessa donna da 35 anni, e credo che l’avere cresciuto un figlio forte, indipendente e gentile sia stata la cosa più vicina a una riconciliazione. Ma non credo ci riuscirò mai: se violenti una bambina di 5 anni, non fai nulla per renderla possibile».
Pensa che il MeToo abbia davvero cambiato qualcosa?
«Sì, ma dobbiamo insistere, perché i conservatori antifemministi stanno lottando per tornare al mondo di prima».
Che idea si è fatta dell’autore della biografia di Philip Roth, Blake Bailey, il cui libro è stato ritirato dal mercato dopo le accuse di molestie e violenze sessuali?
«Ci sono dei ragazzi - non uomini, perché non lo saranno mai - che diventano degli stupratori perché crescono con quell’arroganza che gli fa credere che stuprare non è poi questa gran cosa, che posso farlo tranquillamente. E sono sicura che questo Blake non abbia alcuna coscienza del perché siamo così arrabbiate, esattamente come il mio patrigno. Ho letto le accuse che gli sono state mosse, non ho simpatia per un mostro del genere, credo si sia meritato tutto quello che gli è successo».
Lei è stata una delle prime a rendere visibile il desiderio sessuale lesbico.
«È così, ma ci sono state anche delle ripercussioni. Quando aveva 12 anni, mio figlio è tornato a casa arrabbiato: a scuola alcuni amici avevano googolato il mio nome ed era uscita una foto per la Lesbian Sex Mafia (un gruppo di supporto ed educazione BDSM per donne bisessuali e lesbiche, ndr) dove indossavo calze a rete e tacchi a spillo. È un miracolo che quel ragazzo sia sopravvissuto! Ne abbiamo parlato per giorni, di quello che sua madre era e di come, per questo, venisse considerata dal mondo. Ma ciascuno ha le sue battaglie, a lui è toccata una madre in calze a rete! (ride) ».
Nel suo libro parla di «white trash», come vengono definiti i bianchi delle classi più basse. Oggi sentiamo più spesso parlare della povertà dei neri. Che rapporto avevate, nella vostra famiglia, con quella comunità?
«Ricordo bene quando, al college, scoprii che la mia famiglia era razzista. Da piccola non me ne rendevo conto, ma crescere poveri in una famiglia bianca vuol dire crescere con il mito che i neri ci odino e siano pericolosi. Anche la mia adorata madre, che faceva la cameriera e lavorava con donne di varie etnie, aveva paura delle persone di colore. Feci molta fatica ad accettarlo, ma ancora peggio fu quando scoprii di avere le sue stesse paure. Quando entrai nel collettivo femminista c’erano molte donne di colore e non sapevo mai come comportarmi con loro, mi scusavo in continuazione. Non sopportavo di essermi scoperta così, e mi ci sono voluti anni di lavoro per superare i miei limiti. Spesso non capiamo che il vero cambiamento richiede del tempo. Mi diedi una regola, di lavorare soprattutto con le donne di colore della working class, e alcune sono diventate le mie migliori amiche. Abbiamo anche scoperto di avere le stesse ricette e di usare le stesse spezie per cucinare!».
Qual è la cosa più straordinaria che ha scoperto nella vita?
«Il perdono. Sono cresciuta con una grande rabbia, come un animale. Ma ho dovuto perdonare mia madre per non averci protette: lei voleva, ci ha provato, ma non ci è riuscita. Ho dovuto perdonare la chiesa, per avermi chiesto di perdonare il mio patrigno, che è una cosa che non avverrà mai. E, anche se sembra arrogante, ora sto lavorando per riuscire a perdonare anche Dio».