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 2021  giugno 05 Sabato calendario

Il bitcoin in poche mani

Una grande ricchezza in poche mani. È ciò che salta fuori analizzando la blockchain del bitcoin. Secondo i dati di bitinfocharts.com gli indirizzi (cui, in linea di massima, possono ricondursi i “wallet” digitali) con portafogli da 100 fino a 1 milione di unità della criptovaluta regina sono 16.049. Vale a dire: lo 0,04% del totale. Una pattuglia di “addresses” che custodisce circa il 63% dei bitcoin in circolazione. In dollari significa una potenziale ricchezza di ben 434,7 miliardi. Insomma, modificando un vecchio slogan pubblicitario, può dirsi: Bitcoin! Non per le mani di molti, ma nei portafogli di pochi. 
La contraddizione
La situazione, a ben vedere, pare un paradosso. Cioè: il criptoasset che rivendica la decentralizzazione della finanza è, ad oggi, custodito in poche cassaforti digitali. «In realtà – ribatte Valeria Portale, direttore dell’Osservatorio Blockchain & Distribuite Ledger del PoliMi – non c’è alcuna contraddizione. La caratteristica della decentralizzazione significa che il bitcoin non è gestito da un ente centrale che ne controlla le operazioni. Sono tutti i nodi della rete, i computer, a svolgere quest’attività». L’impostazione di fondo della criptovaluta, così come descritta dal “white paper” di Satoshi Nakamoto, «ha nulla a che vedere con l’idea della redistribuzione della ricchezza». Inoltre, è l’indicazione degli esperti, il bitcoin può essere diviso fino ad un centomilonesimo di parte. Dal ché, in teoria, anche chi ha poca ricchezza può operare con esso. «Peraltro – fa da eco Federico Izzi, analista di criptovalute per Poseidon Group – i dati sui possessori della criptovaluta devono essere analizzati più approfonditamente». Vale a dire? «In primis va ricordato che diversi dei portafogli in oggetto sono stati creati anni fa, quando il bitcoin era su valori lontanissimi dagli attuali» ed era quindi più facile acquistarlo. Ebbene: molti dei soggetti che lo hanno comprato, «spinti più dalla condivisione delle idee della cryptoeconomy che dalla ricerca del guadagno, hanno mantenuto la criptocurrency». Ed è per questo che, adesso, ci sono i “wallet” miliardari. Non solo. «La stessa validazione delle transazioni richiedeva, per risolvere il problema matematico alla base dell’algoritmo di consenso, molta meno potenza computazionale di oggi». Quindi i “miners” di allora, che spesso hanno tenuto i bitcoin, si trovano anch’essi a possedere oggi portafogli importanti. Insomma il messaggio è: la concentrazione in mano a pochi è anche, e soprattutto, l’effetto del modello del bitcoin. Un criptoasset che, divenuto riserva di valore, viene mantenuto nel tempo da parte di chi, con molta lungimiranza (al di là dei bitcoin ricondotti a Nakamoto), lo ha acquisito nel passato. 
I portafogli e gli exchange
Ciò considerato è però innegabile che la criptovaluta regina non sia così distribuita. Peraltro, guardando i primi portafogli per valore ci si accorge che non tutti risalgono a parecchi anni fa. Certo: diversi di questi sono i cosiddetti “cold wallet” delle piattaforme centralizzate di scambio. Cioè: portafogli su cui vengono depositati i bitcoin dei privati che fanno trading sull’exchange. «Gli investitori – sottolinea Andrea Medri, ceo di Therocktrading – spostano, dai loro wallet privati ai nostri, la cryptocurrency per operare. Poi però, seguendo una prassi non efficiente che noi disincentiviamo, mantengono spesso il criptoasset sul nostro portafoglio». Di qui, anche, «la sempre maggiore crescita di questa tipologia di “wallet” digitali». Al che non stupisce che l’indirizzo più ricco, secondo bitinfochart.com, sia, da un lato, riconducibile al portafoglio della maggiore piattaforma di scambi centralizzati (Binance);e, dall’altro, abbia quale data per la prima movimentazione il 18 ottobre del 2018. Ciò detto, tuttavia, molti altri ricchi “wallet”, non esplicitamente legati alle piattaforme, risalgono, ad esempio, allo scorso anno. Vero! A causa dell’anonimato degli indirizzi, potrebbero comunque ricondursi ad un exchange. E, tuttavia, l’ampio numero di casi fa ipotizzare che dietro questi indirizzi ci siano soggetti specifici, magari istituzionali. I quali probabilmente, forti delle loro finanze, hanno concentrato importanti quantità di “oro digitale” nelle proprie casseforti. 
Il mondo delle balene
In tal senso Goldman Sachs, in report che in linea di massima conferma il tema della concentrazione dei bitcoin, rimarca la presenza delle cosiddette “balene”. Cioè indirizzi cui sono riconducibili grandi quantità di criptoasset. Secondo l’istituto questi hanno un’incidenza di circa il 28%. Il dato è rilevante e induce la domanda: visto che il mercato del criptoasset rimane di nicchia, quali gli impatti sulle quotazioni quando le “balene” si muovono? «Il rischio – risponde Medri- è che i prezzi possano salire sulle montagne russe. In particolare, sul breve periodo. Oggi però, anche grazie all’ampliamento della market cap del bitcoin, il pericolo mi pare, se non annullato, molto diminuito».