la Repubblica, 4 giugno 2021
Intervista a Marc Marquez
BARCELLONA – «All’inizio, tutto il male che ho provato mi aiutava a non pensare. Ma adesso è pensare, che mi fa male». Per dieci anni Marc Marquez ha divorato gare, avversari, titoli: 8 mondiali e 82 gp vinti, 134 podi, 90 pole. Insaziabile. Come a Jerez nel luglio scorso: non gli bastava una rimonta incredibile (17 sorpassi e il 3° posto in pochi giri!), cadde inseguendo un altro – impossibile – successo. La frattura all’omero destro, la prima operazione, il rientro in pista solo qualche giorno dopo: non voleva perdere tempo. C’era da vincere ancora, ancora e ancora. Invece. Il calvario era appena cominciato. «Le gare sono tante, il corpo è uno solo: allora non lo sapevo». Per tre volte i chirurghi hanno cercato di aggiustare quella che sembrava una macchina perfetta. L’ultimo intervento è durato 11 ore. «Ho pregato lassù, in cielo, per riavere l’uso del braccio». È rientrato ad aprile in Portogallo: un 7° posto, poi 9°. «Il dolore non se ne va: prima il gomito, poi la spalla». E due cadute consecutive, a Le Mans e al Mugello dove era appena morto Dupasquier: «Nel minuto di silenzio ho cancellato la realtà: se avessi riflettuto lucidamente su quello che era appena successo, non avrei corso».
Marquez, pensa di tornare come prima?
«So di potercela fare. Però in questo momento la mente va dove il corpo non riesce ad arrivare».
Eppure qualcosa di positivo sarà successo, nell’ultimo anno.
«Ho recuperato l’uso del braccio destro. Credetemi, non era scontato: non sto parlando di andare in moto, mi riferisco alla vita normale.
Mangiare, farsi la barba, giocare coi miei cani. Non ho pensato ad altro, in tutto questo tempo: il mio braccio».
Valeva la pena andare sempre oltre il limite?
«Ho imparato diverse cose. Le lesioni non sono tutte uguali. Quando ti succede una cosa come questa, è meglio ascoltare tre opinioni diverse prima di tornare in moto. E la più importante: ci sono tante gare ma un solo corpo. Se il corpo cede, non ci saranno più gare».
Marquez non è ancora Marquez.
Quanto dovremo aspettare?
«Quando recuperi devi aspettarti gli imprevisti. Speravo fosse tutto più rapido: invece ho cominciato ad avere grandi dolori al gomito, poi alla spalla. È normale, mi hanno detto i medici: l’omero è collegato al gomito, e alla spalla. Ci vuole tempo, ripetono. Devo essere paziente».
Non è facile.
«A livello mentale è durissimo.
Quando sei appena operato, psicologicamente non è così complicato. Ti fa male fisicamente, provi dolore: e non pensi. Ora, invece: la mente va in un posto, perché hai ripreso a pensare. Però con il corpo non ci arrivi. Succede in palestra, così come in moto: la tua testa ti dice una cosa, la realtà è un’altra».
Assomiglia a un incubo.
«A Le Mans ero in testa, la mente viaggiava libera, felice. Finalmente potevo salire sul podio, tornare a vincere: ma all’improvviso ho scoperto di non essere preparato a fare tanti giri a quel livello. La frustrazione è stata enorme. Per fortuna qualcosa di positivo è saltato fuori. Come al Mugello, nonostante la caduta. Mi sono tolto gli ultimi dubbi, so di poter essere rapido come prima. Ma non ora».
C’è chi sostiene che lei dovrebbe farsi aiutare da uno psicologo.
«Ho la famiglia. I miei genitori, gli amici. Soprattutto mio fratello Alex. Non possono risolvere il problema, d’accordo: però possono aiutarmi a non pensarci. E a non perdere la fiducia in me stesso. Io so bene da dove vengo, quali sono i miei limiti attuali, dove voglio arrivare. Ma ho un tremendo bisogno di staccare, di ritornare a una vita normale. Sono stati 10 mesi di montagne russe: euforia, tristezza. Non sapevo se sarei davvero tornato, in Portogallo piangevo. Ho bisogno di distrarmi.
Per dire: vorrei che il mio fisioterapista, che ha fatto una lavoro straordinario, tornasse presto a casa sua. Perché rivoglio la mia vita di prima».
Non è facile rallentare, per uno come lei.
«Invece di pensare a come far correre la mia Honda, dopo ogni sessione di prove c’è da mettere il ghiaccio, fare fisioterapia, prendere gli antinfiammatori. È dura. Mi piacerebbe correre almeno le ultime 3-4 gare della stagione non pensando più al braccio, ma solo ad attaccare».
Nel frattempo i suoi rivali sono cresciuti. Non hanno più paura di lei.
«Sono tutti molto forti, e vicini: ognuno pensa di poter vincere. Vedo un grande equilibrio e nessun leader: a parte Quartararo, che potrebbe avere qualcosa di più».
Dicono adesso che si mette in scia: “Non è un buon esempio, per un 8 volte campione del mondo”.
«È la legge del motociclismo: quando uno soffre, cerca di sopravvivere. Il più debole sfrutta il più forte, e io nelle qualifiche ho scelto Viñales, il migliore: un tempo seguivano me.
Adesso è il mio turno».
Domenica scorsa è morto Jason Dupasquier. Aveva 19 anni. Si è corso lo stesso giorno, si torna a correre subito a Barcellona.
«Una tragedia che ci ha ricordato i rischi che corriamo salendo in moto.
Ho cercato di non pensare a nulla, nel minuto di silenzio: se lo avessi fatto – lucidamente – me ne sarei andato. Gli organizzatori hanno deciso di andare avanti: ma chiunque poteva decidere di fermarsi, e la sua squadra non lo avrebbe rimproverato».
Un tempo dicevano: che fortuna, quel Marquez. Ora, invece.
«Il destino lo puoi cambiare, se ti impegni. Certe cose accadono e non ci puoi fare nulla: però puoi ancora intervenire, cambiare le conseguenze. Se lavori bene, la fortuna arriva. E tieni lontano la mala sorte. La carriera di un pilota è un po’ come vincere la legge di gravità: se ti impegni, puoi salire sempre più in alto; però quando sei lassù devi continuare ad impegnarti, altrimenti la gravità ti riporta a terra».
È religioso?
«Non molto. In questo ultimo anno non ho mai pregato un santo particolare, però ho chiesto tante volte al cielo di aiutarmi a guarire, a tornare come prima: spero che lassù qualcuno mi ascolti».