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 2021  giugno 04 Venerdì calendario

I microchip costano un accidente

Arrivi un giorno in azienda e per un microprocessore che un anno fa costava tre dollari e mezzo te ne chiedono 817,90. Calcolare la percentuale di rincaro è un puro esercizio di stile, la sostanza è che così non si può lavorare: «Siamo stati costretti a fermare la linea produttiva per una settimana, finché non abbiamo trovato il microchip a 40 dollari, comunque un prezzo altissimo» dice Giordano Riello, che con la sua NPlus a Rovereto produce schede elettroniche. È la grande crisi delle materie prime: da mesi introvabili e schizzate a livelli record per il combinato disposto della ripresa, dell’aumento della domanda, dell’inflazione e della storica iniezione di soldi pubblici nell’economia. E le prospettive, dicono gli analisti, non sono incoraggianti: i rincari proseguiranno per un altro anno e mezzo.
La manifattura si arrangia come può, tra fermate, cali dei margini e ripercussioni sui prezzi proposti ai clienti. «Noi lavoriamo con materiali ferrosi e plastica – spiega Giorgio Luitprandi della Edilmatica, che a Mantova produce prefabbricati per l’edilizia –. Siamo in difficoltà, l’ultima sorpresa pochi giorni fa. All’improvviso una mail da un fornitore: “Non rispettiamo le consegne previste, possiamo darvi solo materiali di minore qualità”. Stiamo correndo il rischio di perdere clienti, non ci sono alternative e non possiamo scaricare tutto sui prezzi. Ed è impossibile programmare a sei mesi come eravamo abituati, al massimo si ragiona su qualche settimana». Se far pagare tutto ai clienti fa finire fuori mercato, la sponda non arriva da chi sta a monte della catena: «Si è creata una bolla speculativa tra i fornitori – ragiona Francesco Frezza, industriale del legno di Bari –, noi abbiamo dovuto annullare contratti già firmati, era impossibile rispettarli con prezzi schizzati da 400 a 800 euro al metro cubo e con gli imballaggi rincarati del 30-40%. Procediamo con accordi settimanali sperando di spuntare di volta in volta condizioni migliori, e tutti ci propongono consegne non prima di settembre-ottobre». Basta poco per perdere i clienti: «Magari un concorrente cinese che la materia prima ce l’ha in casa, visto che siamo tutti dipendenti da loro – si sfoga Riello –. Pechino arriva a mettere i dazi in uscita, sono manovre per indebolire i mercati occidentali a cui dovremmo rispondere. Servono interventi a livello europeo per proteggerci».
L’inflazione pesa anche sull’agroalimentare: a maggio + 40% per le commodities, dice la Fao. Record dal 2011.
Le cause e gli scenari
I numeri dicono che il petrolio è ai massimi da due anni e che in dodici mesi il rame è rincarato di quasi il 150%, alluminio e nickel circa del 70%. «È uno scenario che ha origine soprattutto nel ciclo macroeconomico – spiega Daniela Corsini, senior economist della Direzione Studi e Ricerche di Intesa San Paolo –. Da una parte c’è la ripartenza che dalla Cina si è estesa a tutto il mondo e ora ai servizi, dall’altra le politiche fiscali che hanno portato grandi iniezioni di liquidità in tutto il mondo occidentale, per redistribuire il reddito dopo la pandemia. In più a spingere l’inflazione ha contribuito la svalutazione del dollaro».
Dinamiche rafforzate da fenomeni più transitori e legati alla pandemia: «Ne individuiamo due – prosegue Corsini –. Il primo è l’improvviso cambiamento dei consumi, che ha spinto il packaging, e dunque carta e plastica, e l’immobiliare negli Usa, che ha fatto impennare la domanda di legno. Il secondo sono i colli di bottiglia a trasporti e produzione: il distanziamento sociale ha frenato molti siti produttivi, come le miniere, mentre i bassi livelli di scorte decisi nei mesi dei lockdown rendono ora meno rapida la risposta nelle consegne. Per questo spesso non si rispettano le consegne nonostante i prezzi elevatissimi».
Il mix di variazione dei consumi e magazzini svuotati sta tutto nel caso dei microchip introvabili: quando le case automobilistiche hanno cancellato gli ordini durante i lockdown, i produttori asiatici si sono spostati sui chip per l’informatica e ora, con il mercato in ripresa, manca quel che serve all’automotive, in attesa che i fornitori si riallineino.
Secondo le previsioni del centro studi di Intesa, le imprese dovranno stringere i denti ancora per un anno e mezzo: «Gli investimenti pubblici in infrastrutture e transizione verde manterranno alta la domanda e quindi i prezzi – aggiunge Corsini –. Penso soprattutto ad acciaio e rame, che non è sostituibile nei processi di elettrificazione e soffre anche i freni alla produzione in America Latina, dove c’è un rinnovato interesse per i temi ambientali. Penso anche a energia e gas: è fortissima la concorrenza dell’Asia, che vuole ridurre le emissioni e cerca gas naturale. Le aziende devono prepararsi a convivere con i rincari, non si tornerà ai livelli del 2019».
È l’altra faccia della svolta green: la domanda si concentra sulle materie prime e le fonti energetiche che devono alimentarla, facendo correre le quotazioni. E, nei prossimi mesi, anche le bollette delle imprese: previsti aumenti per i diritti di emissione di anidride carbonica.