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 2021  giugno 04 Venerdì calendario

Giaffa, simbolo della convivenza di ebrei palestinesi e cristiani

Se a Giaffa un viaggiatore distratto scende dall’autobus alla fermata sbagliata e chiede a un passante come arrivare in via Rabbino di Peshischa nessuno di certo gli sa indicare la strada. I nomi delle strade a Giaffa sono un bel problema. Via “Shivtei Israel” (tribù di Israele)”, o Via Naji al-ali, in nome di un artista visuale palestinese? Dipende a chi lo chiedi.
Eppure è la stessa strada. Yafo in ebreo, o Yafa in arabo, uno dei porti più antichi del mondo, è la città gemella di Tel Aviv con cui condivide il sindaco, ma non si assomigliano affatto. Solo due settimane fa era al centro di una crisi di drammatica violenza. Di vera e propria guerriglia urbana. Spazzata e ripulita, di quei giorni non è rimasta traccia.
La nostra prima tappa nel groviglio di identità che la popola è da una famiglia di ebrei laici e di sinistra che vivono di fronte a una popolare caffeomante araba, cioè una lettrice dei fondi di caffè, una non meno famosa attrice araba, e una famiglia di arabi cristiani. “Siamo venuti qui alla ricerca di una vita più autentica di quella della metropoli, e subito Giaffa ci è entrata nel cuore con i suoi giardini nascosti, la sua architettura orientale e il mosaico creato dai suoi abitanti: arabi musulmani e arabi cristiani, cattolici, armeni, protestanti accanto a ebrei liberali, religiosi, di destra e di sinistra, ashkenaziti e sefarditi”, afferma la padrona di casa. “Quando quindici giorni fa ho visto dei ragazzi che bruciavano una ‘rana’, cioè un recipiente verde che contiene la spazzatura, ho preso una gran paura. Non me lo sarei mai immaginata.” Anche Marta, ebrea di origine marocchina, in affitto in una palazzina di proprietà araba, ricorda lo sgomento e la sorpresa quando si trovò di fronte quella folla inferocita “ma secondo me quei ragazzi erano parte della delinquenza locale. Non ragazzi ‘normali’”.
“Non sono affatto d’accordo. I ragazzi che hanno dimostrato sono giovani normalissimi che non hanno orizzonte, non hanno lavoro, futuro, non riescono a guadagnare abbastanza per potersi sognare una casa a Giaffa adesso che è diventata così di moda” commenta il proprietario di una famosa humusia cioè di una sorta di trattoria specializzata in humus.
“La mia famiglia non si è mossa da qui quando è nato lo Stato di Israele. Come tutti gli arabi israeliani ho carta d’identità israeliana e passaporto israeliano. Voto come ogni israeliano. In teoria ho gli identici diritti di ogni altro israeliano, ma nella realtà non è proprio così. Speriamo di arrivarci. E già che ci siamo anche di risolvere i problemi dei nostri fratelli di Gaza e della Cisgiordania”.
“Io chiedo solo di poter lavorare e vendere il mio pesce fresco”, commenta un pescivendolo di Rehov Yeffet. “Ho dovuto chiudere per una settimana. Non c’è nulla di più triste che un pesce che invecchia e muore dentro al frigo”.
“O un ristorante vuoto”, commenta il ristoratore. Suha, il capo coperto dall’hijab, madre di tre figli: “Ho avuto una grandissima paura quando ci sono stati le agitazioni. Non volevo che i miei figli uscissero di casa. C’è una grande frustrazione, una grande rabbia. C’è ancora molto fuoco sotto la cenere, ci sono problemi da affrontare, domande a cui dobbiamo trovare risposta”. Hidaya, impiegata, madre di due figli: “Da parte mia è importante, come araba, anche crescere e maturare nella mia identità di donna, madre, moglie” commenta. Lana, studentessa: “Mia madre è nata a Gaza. Una prozia viveva nel palazzo di Gaza in cui c’erano le agenzie di stampa. Quando il palazzo è stato bombardato è rimasta solo con gli abiti che aveva addosso. Certo che ne abbiamo sofferto. Ma io vivo qui. Un mio cugino è stato arrestato qui, e rilasciato qui due giorni dopo. I miei problemi e la mia vita sono qui. Non riesco neppure a immaginarmi di poter vivere altrove. O in un paese dove tutti sono arabi. C’è una grande ricchezza nel vivere insieme, religioni e identità diverse”. “Questa ricchezza se non sfruttata può essere anche un grande problema afferma Ishai, attivista sociale (ebreo di Giaffa) le cui figlie studiano in una scuola mista. “I giovani di Giaffa parlano un arabo intercalato di parole in ebraico, una specie di arabebraico, e quando si trovano a fare il test psicometrico per entrare all’università non sanno abbastanza ebraico o abbastanza arabo da poterlo superare. Sono nel mondo di mezzo. Il nodo del miglioramento è tutto lì. Nella scuola. Nei giovani”.
Il suo cauto ottimismo è giustificato. Negli ultimi sei anni il numero di laureati arabi nella Sanità è aumentato del 36%, nell’Istruzione del 29% e nella libera professione del 56%. Contemporaneamente proprio in queste ore, in Israele si sta formando un nuovo governo di coalizione di cui farà parte per la prima volta nella storia di Israele, un arabo israeliano.
Pragmatico e coraggioso, Mansour Abbas del movimento islamico è il fautore di un cambiamento storico in questo momento così complesso nella storia dello Stato. Per la prima volta un politico arabo che non si occuperà principalmente di Gaza e Cisgiordania, ma dei problemi dei suoi concittadini arabi. “Era ora” commenta Suha