Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2021
Pechino prova a frenare la corsa dello yuan
Non manipolare la moneta a proprio vantaggio: la Cina l’ha promesso agli Stati Uniti il 15 gennaio 2020, con la firma della Fase 1 dell’accordo commerciale. Ma adesso che il Paese, grazie al boom dell’export, degli investimenti esteri e della calamita del suo mercato di azioni e bond, è letteralmente sommerso di dollari, non sa più come tenere a bada la cavalcata dello yuan.
L’anno scorso, in piena pandemìa, la moneta si è apprezzata del 12 per cento, ai massimi dal 2018, rasentando la soglia psicologica del 6,40 e finendo al top, dal 2016, rispetto a un paniere ancora più ampio di valute di partner commerciali.
Ogni mossa della Banca centrale cinese per frenare la valuta nazionale rischia di affossare il dialogo con gli Usa. Proprio ora che il vicepremier Liu He e la rappresentante al Commercio Katherine Tai si sono parlati a telefono e che la responsabile del Tesoro, Janet Yellen, ha avuto con lui addirittura un costruttivo video incontro. Pechino vuol capire la portata dell’ordine esecutivo con cui il presidente Joe Biden vieterà a partire dal 2 agosto investimenti americani in 59 aziende cinesi legate alla Difesa o al settore delle tecnologie di sorveglianza: aggiornando e riordinando la “lista nera” avviata da Donald Trump. La lista include Huawei Technologies e le tre principali compagnie cinesi delle telecomunicazioni.
Per placare il nervosismo dei mercati il governatore Yi Gang ha immesso ieri 1,57 miliardi di dollari di liquidità nel sistema interbancario in pronti contro termine a sette giorni al 2%, un maxiprestito che sarà restituito dal circuito quando entreranno in funzione le misure adottate nelle ultime ore per frenare lo yuan.
Ci sono troppi dollari sul mercato cinese, l’export dal Nord America ha tirato la volata alle aziende; gli investimenti, i mercati finanziari, azioni e obbligazioni hanno attirato valuta estera, e mai come in questa fase i privati detengono così tanti dollari. Circa mille miliardi quelli depositati, da paragonare ai 3mila miliardi in valuta estera che la Cina detiene come riserva, cresciuti, in dollari, nel 2020 “solo” del 2,9% (contro il 10,6% e il 13,2% di Corea e Taiwan). Negli ultimi 16 mesi, fino ad aprile, i depositi in dollari erano lievitati di 242,2 miliardi, pari all’1,8% del Pil, un importo anche superiore al valore, nello stesso periodo, del mercato dei bond, che era di 220 miliardi di dollari.
Un fattore di estremo rischio che ha spinto la Banca centrale a una mossa unica nell’ultimo decennio: l’imposizione alle banche, dal prossimo 15 giugno, di portare dal 5 al 7% la quota dei depositi in valuta estera, in modo tale da trasferire il rischio depositi in dollari dai privati alle riserve delle banche. Non solo. Ha prospettato un abbassamento del tasso sui depositi sui quali le banche si fanno concorrenza grazie a un nuovo sistema di calcolo.
Infine, anche nel rischioso settore del real estate la CBIRC, la Commissione di vigilanza sulla borsa e le assicurazioni, ha avvisato che ci sarà un solo prospetto per pagare le tasse, anche se si è titolari di dieci case.
Oltre a non urtare la suscettibilità americana, la Cina deve gestire l’emergenza dollaro evitando pericolose fughe in avanti (o indietro). Il criterio per la determinazione del tasso di cambio non sarà toccato, ha precisato la Banca centrale. Si eviterà, però, una chiusura-boomerang sulla strada dell’internazionalizzazione del renminbi. Ad Hong Kong, ad esempio, i depositi in yuan hanno raggiunto il secondo picco in cinque anni proprio sulla scia dell’apprezzamento dello yuan contro il dollaro: più 122,6 miliardi a fine aprile, il secondo livello dal febbraio 2016.
Tenere insieme i tasselli non sarà facile. Perchè, nel frattempo, il settore manifatturiero e, ora, quello dei servizi a maggio ha rallentato il passo, sempre sopra la soglia di 50 considerata la linea tra crescita e decrescita, mentre la lotta all’inflazione, specie quella legata alle materie prime, è diventata la crociata del Governo.