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 2021  giugno 03 Giovedì calendario

Gli anni Venti (per ricominciare)

«Erano tutti a cena fuori?» si domanda la signora Dalloway attraversando una città che pare rinata, che anzi – scrive Virginia Woolf – sembra stia navigando verso una specie di carnevale estivo. Le chiacchiere, il caldo, un’atmosfera allegra, «argentata». Anni Venti: i ruggenti? Di sicuro, «le cose saltavano agli occhi come mai prima», insiste la scrittrice. E, scrivendo di un secolo fa, scrive anche di noi – impegnati a superare, soffocare la sensazione che «vivere, anche un solo giorno, sia molto, molto pericoloso».
Allora si sta all’aperto, si fa festa, dimostrando a sé stessi di essere vivi. Qualcuno alza il calice e invita a brindare, come pare abbia fatto nei Twenties un ignaro pioniere dell’età dei miracoli e degli eccessi. L’Età del Jazz. Secondo Fitzgerald, accadde a un cocktail party di cent’anni fa esatti: 1921. La «decisione generale di spassarsela» fu presa, sostiene, per riaversi dal grande trauma: alcol, ballo, sesso, una forte eccitazione nervosa in virtù della quale «una razza intera diventava edonistica, abbracciando il piacere».
Nella stessa città in cui approdavano gli expat di genio del secolo scorso si accende oggi il dibattito sulle vie d’uscita dalla Grande Paura. E – come ha raccontato su queste pagine Anais Ginori – ci si domanda se voltare le spalle a una stagione dolorosa imponga uno scarto, uno strappo. Un qualche gesto di esuberanza, di iper-vitalità. D’altra parte, se si tratta di un passaggio d’epoca (è presto per esserne certi), il «mondo di ieri» va congedato e insieme rimpianto: per ritrovare, dopo la privazione, un più intenso piacere del vivere. Che poi significa anche alimentare e rinominare i desideri, assecondare le pulsioni del «minuto e fragile corpo umano». Lasciarlo danzare barbaramente, un po’ come danza il Mickey Mouse delle origini – fine anni Venti, per l’appunto: giocoso, leggero, solare. Sa di non potere rimuovere di colpo le rovine, ma impara ad abitare il paesaggio che in esse si apre. O almeno così pareva a uno studioso imprevedibile del personaggio Disney, un Walter Benjamin incantato da quello slancio animale, dalla volontà di abitare un mondo diverso, possibile solo in sogno.
Il protagonista del film di Woody Allen Midnight in Paris sale infatti in una onirica auto d’epoca per sbucare ai tavoli di un caffè a cui sono seduti Hemingway, Dalí e Picasso. Ma poi incontra un’amante del pittore spagnolo che esalta i chioschi e i lampioni a gas della superata Belle Époque: «Sarebbe stata perfetta per me!». Perché è sempre una lente un po’ opaca quella con cui guardiamo a un passato “ideale”. E tanto più opaca è quella con cui guardiamo al presente, immalinconiti, attendendoci un ritorno della presunta età dell’oro. «Astoriologia»: lo storico Emilio Gentile frena con questo termine ogni parallelismo, ogni tentativo di istituire analogie indebite fra momenti storici diversi. «Il trauma della guerra non è paragonabile a quello della pandemia: abbiamo vissuto – osserva – una crisi pesante, certo, ma per la gran parte di noi è accaduto nella sicurezza se non nel conforto delle nostre case. Si tratta di esperienze abissalmente diverse, e se posso fare un pronostico, non credo che dalla pandemia nascerà un fermento artistico-letterario, un’arte o una letteratura dell’euforia…».
Fiumi di champagne e di birra, «musica gialla da cocktail», l’orgia più costosa della storia – quella dell’altro secolo – incendia invece le pagine di scrittori e poeti, elettrizzati ed eccitati dal paesaggio del cambiamento. Fitzgerald, Henry Miller – l’immagine quasi blasfema della festa nel giardino del cimitero è sua. In Italia di tutto questo arriva ben poco. Scrivendo un libro intitolato Svegliarsi negli anni Venti, mi sono chiesto il perché. Rivolgo la domanda a Gentile: «Una letteratura italiana assimilabile a quella francese o americana sugli anni folli e ruggenti non c’è perché la vittoria della guerra appare subito, come scrisse d’Annunzio, mutilata: “Abbiamo vinto la guerra, abbiamo perso la pace”. Il clima non è euforico, già il primo anniversario della Vittoria non viene festeggiato. E il Paese soffrirà almeno fino al ’24-’25 conseguenze pesanti sul piano economico. L’entusiasmo si riaccende, almeno su un piano politico, in pieno clima fascista». Anche la verve futurista protonovecentesca sembra stinta, a favore di un ritorno all’ordine, a una riscoperta della tradizione, «che in qualche modo – continua Gentile – precede le istanze del provincialismo nazionalista fascista. Il recupero in fase post-bellica della civiltà italiana, la sua esaltazione sono al polo opposto rispetto al cosmopolitismo che si respira in una capitale come Parigi. Da noi, internazionalismo equivale a bolscevismo, e come tale viene contenuto o respinto».
I nostri boom – parola magica evocata in questi giorni nel dibattito politico – sono collocati su altri calendari: il secondo dopoguerra, l’ingannevole lunga estate degli anni Ottanta. Così, se risulta forse azzardato leggere nel ritorno alla vita di questa tarda primavera i segni di una svolta, non è insensato chiedersi se il fermento emotivo produrrà qualcosa di nuovo. Se romperà qualche schema. Se disinnescherà qualche pilota automatico. Se smuoverà e rinverdirà qualche olio fin troppo esausto. L’otti-mismo non è incauto; e benché il tempo cui andiamo incontro sarà presumibilmente segnato da oscillazioni e cambiamenti destabilizzanti anche nel quadro ambientale, vale la pena smarcarsi dal fronte degli apocalittici duri e puri. O almeno essere un po’ meno diffidenti di quell’Italo Svevo che, in una fotografia del 1921, dà l’impressione di essere sul punto di scoppiare a sghignazzare sulle sorti del mondo. Perché essere vivi sul pianeta Terra in questi anni ossessionati dalla tecnologia – ammoniva per tempo un notista dell’Economist – significa essere tra le persone più fortunate che abbiano mai vissuto. Non vi fidate? Fidiamoci allora di Saul Bellow, un maestro della letteratura americana nato in piena Grande Guerra, che esortava a non essere uno di quei vecchi saggi all’antica fermi a osservare. Meglio correre, fluttuare, volare su acque luccicanti. Essere «sufficientemente forti per non rimanere terrorizzati di fronte agli effetti locali della metamorfosi».