la Repubblica, 3 giugno 2021
Intervista a Fran Lebowitz
Il recente documentario Pretend it’s a city, di Martin Scorsese, ha reso Fran Lebowitz popolare in tutto il mondo: fino ad ora è stato un personaggio di culto per i newyorkesi, relativamente noto negli Stati Uniti e pressoché sconosciuto altrove.
Uno dei motivi di questa differenza di popolarità è data dal fatto che, con l’eccezione di alcuni scritti, che risalgono agli anni Novanta, Fran Lebowitz è un personaggio pubblico newyorkese, invitato in televisione o a tenere conferenze nelle quali mescola, con grande ironia, riflessioni sui massimi sistemi ad aneddoti quotidiani.
Nonostante sia nata nel New Jersey, è un’icona di quella New York che predilige la downtown degli artisti ma frequenta con piacere le classi alte dell’Upper East Side: il suo sguardo nei confronti di entrambi i mondi ricorda quello di Dorothy Parker, senza tuttavia i suoi elementi autodistruttivi. Nella bella prefazione del prezioso La vita è qualcosa da fare quando non si riesce a dormire, in uscita per Bompiani con un’ottima traduzione di Giulio D’Antona, Simonetta Sciandivasci sostiene che della Parker non ne ha neanche l’allegria «perché si aspetta poco dalla vita».
Può sembrare un paradosso, per una scrittrice che ha fatto dell’ironia la sua forza, e bisogna aggiungere che il suo umorismo, sempre caustico e intelligente, non sconfina mai nel cinismo. «Se frequentassi meno i party newyorkesi» mi racconta nel suo appartamento di downtown invaso dai libri «probabilmente scriverei di più. È la differenza tra me e Scorsese: lui gira film e documentari uno dopo l’altro, io vivo la vita della città. Ma al di là del talento, non so se farei a cambio».
Come vi siete conosciuti?
«Ce lo chiediamo continuamente, e non riusciamo a ricordarcelo, ma parliamo di un’amicizia di almeno trent’anni. Ci siamo sicuramente incontrati a una festa, io ero rapita dal modo con cui parlava di cinema: Marty ti fa venire la voglia di rivedere tutti i film di cui parla, a cominciare dai suoi».
È abbastanza difficile darle una qualifica: scrittrice? Giornalista? Personaggio pubblico? Lei come vorrà essere ricordata?
«Sinceramente non mi sono mai posta il problema, e non mi importa nulla di cosa diranno o scriveranno quando non ci sarò più. È un po’ come chiedere cosa vorresti per cena dopo che sei morta».
Una delle sue prime esperienze di lavoro è stata quella di tassista: cosa ha imparato?
«Che odiavo lavorare come tassista».
Lei ha scritto: “Il mio ruolo è quello di accusare la gente!”.
«Facciamo di tutto per rendere la vita complicata, e rovinare ogni possibile gioia: questo per me è insopportabile. Quindi mi ribello e accuso».
John Updike sosteneva che per un newyorkese vivere altrove è assurdo: è d’accordo?
«Ma certo! So bene che nel mondo ci sono luoghi e anche città splendide, in particolare in Italia, ma nessuna ha la vitalità e l’offerta di New York».
Durante la pandemia è stata data per morta.
«È come la battuta di Mark Twain: “La notizia della mia morte è ampiamente esagerata”. In realtà c’è molta invidia e odio nei confronti di New York, proprio per la sua imprescindibile centralità. Generalmente chi parla della sua morte è chi qui non ce l’ha fatta. Inoltre c’è da aggiungere che in maniera ricorrente leggiamo della morte del romanzo, la morte della pittura, la morte della civiltà, la morte di Dio…».
Lei è credente?
«No, ma non credo Dio sia morto. Sono atea da quando avevo otto anni, e vengo da una famiglia ebraica dove entrambi i genitori erano osservanti».
Cosa succede dopo la vita?
«Non ne ho la più pallida idea, ma chi crede nella vita non crede nella morte».
Lei è originaria del New Jersey: come l’ha aiutata a comprendere New York?
«Credo che una persona si caratterizzi più da dove va rispetto al luogo dal quale proviene».
In un racconto lei capisce che un agente hollywoodiano è abbronzato dalla sua voce...
«È un racconto scritto molti anni fa, ma quel mondo non è cambiato. Los Angeles è un po’ migliorata perché è diventata un po’ più internazionale, ma sottolineo un po’».
Lei scrive: “La pace interiore non esiste. Ci sono solo ansia e morte”.
«È quello che penso, per questo attribuisco un enorme valore al piacere».
In un altro racconto scrive: “Se le vostre fantasie sessuali fossero davvero di un qualche interesse per gli altri, non sarebbero più fantasie”.
«Non sopporto i libri che partono dal presupposto che una cosa importantissima per lo scrittore debba essere di interesse universale.
Specie se si parla di questioni così intime».
Milano è descritta come abitata da “quelli che lavorano per i vari Vogue e gli altri”.
«Andai molti anni fa a Milano con un amico fotografo e mi colpì l’importanza centrale che aveva l’industria della moda. Mi dicono che non è cambiata molto, no? E comunque non è affatto un giudizio negativo, anzi».
Di Roma invece scrive “basta passarci un’ora o due per rendersi conto che Fellini gira documentari”.
«Ebbi questa netta impressione: quel genio di Fellini non aveva inventato nulla. E anche in questo caso lo dico da persona affascinata da quella splendida città».
"In estate la frescura lascia New York per trasferirsi a Southampton, perché non vuole restare in una città piena solo di scrittori sottopagati e di portoricani”. Una battuta del genere oggi potrebbe essere accusata di razzismo, senza parlare del risentimento degli scrittori…
«Questo tipo di censura uccide l’intelligenza: ecco una delle cose che rovinano l’esistenza per le quali rivesto con orgoglio il ruolo di chi accusa».