la Repubblica, 3 giugno 2021
I video del boss che accusano Erdogan
ISTANBUL
— «Grande fratello Tayyip, nel prossimo video parliamo un po’ insieme». La Turchia intera si collega su YouTube, ascolta e deglutisce. Dodici milioni di visualizzazioni. E un obiettivo solo: il comandante in campo, il Sultano, il signor Recep Tayyip Erdogan. Mai una minaccia era arrivata tanto in alto. Mai nessuno aveva osato sfidare il capo dello Stato, il leader assoluto, in maniera così diretta. Ma ora anche i vecchi alleati si ribellano. E “Tayyip bey”, il signor Tayyip come lo chiamano con rispetto e molto timore, adesso deve difendersi.
Il protagonista unico di questa serie di video, uno a settimana, lunghi un’ora, si chiama Sedat Peker. È un personaggio molto noto. Uno dei boss mafiosi più abili e spregiudicati, utili in passato per diverse operazioni ben oltre i limiti della legalità, però incoraggiate, anzi autorizzate. Non ufficialmente, ovvio. Quali? Ad esempio il celebre passaggio di armi dalla Turchia alla Siria, quando Ankara non era ancora entrata in guerra e lo negava. Camion scortati dall’intelligence del Mit, come rivelò lo scoop del direttore del quotidiano Cumhuriyet Can Dundar. Erdogan andò su tutte le furie. Si scatenò la caccia alla fonte, e il giornalista dovette farsi quasi 100 giorni di prigione prima di essere liberato da una sentenza dell’Alta Corte e rifugiarsi in Germania inseguito dall’ira del Capo dello Stato: «Non finirà qui». Oggi Sedat Peker, 49 anni, frangetta grigia e faccia da schiaffi, dice sorridendo da Dubai dov’è scappato: «Quell’operazione l’ho fatta io. D’accordo con voi».
Peker ha deciso di aprire il suo libro personale e rivelare dettagli e segreti che nessuno in Turchia, tanto meno la stampa libera né quella asservita, ha mai potuto conoscere. Attacca l’ex premier Yildirim, accusa il ministro degli Interni Soylu. Il “cerchio magico” di Erdogan trema. È lo stesso schema avvenuto nel 1980, quando gli allora potentissimi militari si liberarono dei Lupi grigi di Mehmet Ali Agca usati nelle operazioni opache che condussero al golpe, e li cacciarono subito dopo verso Germania e Austria. Oggi il governo conservatore di ispirazione religiosa è in imbarazzo, butta fuori i boss come Peker, i quali però hanno perso tutte le loro attività, e adesso si vendicano e minacciano.
L’aura del padrino, e una regia perfetta, caratterizzano tutti suoi i video. Sul tavolo Peker ora ha il libro di Mario Puzo “La famiglia”, un rosario islamico e un mappamondo. Dietro di sé un telo bianco. Come a dire: cominciamo una nuova pagina. Ma che cosa vorrà dire quando invece aggiunge un testo sacro, oppure uno sulla storia della Turchia? La gente ogni domenica mette la sveglia per collegarsi alla puntata successiva, in arrivo la mattina presto dagli Emirati Arabi.
Ad Ankara il governo è in subbuglio. Peker va fermato. Che fare? Si parla di un possibile blitz. Né più né meno come nel 1999 quando le teste di cuoio turche penetrarono in Kenya, e impacchettarono il leader del Pkk, Abdullah Ocalan, uscito dall’Italia, portandolo su un carcere- isola sul Mare di Marmara. Azione ripetuta tre giorni fa, sempre a Nairobi, quando lo stesso team ha prelevato Selahattin Gulen, il nipote di Fethullah, l’imam turco accusato del golpe fallito contro Erdogan nel 2016. Ma Peker non è sciocco: si è rifugiato negli Emirati avversari della Turchia, e ha con sé una guardia armata di 150 persone. Il cosiddetto “Stato profondo”, quel coacervo di interessi composto da mafia, nazionalisti, servizi, da sempre in Turchia protagonista assoluto, si ribella. Emerge. E i boss si manifestano in prima persona. Fin dove vogliono arrivare?