Corriere della Sera, 2 giugno 2021
Biden, il primo presidente a commemorare il massacro di Tulsa
Cento anni fa l’America visse il giorno più tragico della sua plurisecolare storia di violenza razziale: il massacro di Tulsa. Un incidente in apparenza irrilevante e forse inesistente – un giovane nero sospettato di aver fatto avances indesiderate in ascensore a una ragazza bianca, circostanza peraltro da lei non confermata – fu la scintilla che innescò l’incendio: in poche ore venne distrutta la più prospera comunità nera d’America. Allora Tulsa, in Oklahoma, era la ricca capitale dell’industria petrolifera americana e nel suo centro c’era il quartiere di Greenwood: 35 isolati di case negozi, studi professionali, templi, teatri della comunità nera. Un distretto che per la sua ricchezza era stato soprannominato la Wall Street nera, ma che venne distrutto dall’odio razziale, spazzato via insieme al ceto medio di colore: professioni azzerate, afroamericani spinti verso periferie depresse, tra crimine e disoccupazione. Il presidente Joe Biden,che ieri in Oklahoma ha commemorato l’anniversario del massacro e ha denunciato gli attacchi dei repubblicani al diritto di voto, «il più fondamentale dei diritti», annunciando che affiderà alla sua vice Kamala Harris la guida di una task force per contrastare i tentativi degli Stati di restringere i diritti di voto ai danni degli afroamericani. Il presidente, inoltre, ha promesso sostegni alle piccole imprese gestite da cittadini di colore e piani per l’edilizia residenziale, nel tentativo di ricostituire il tessuto sociale delle minoranze etniche. «Sono il primo presidente a venire qua in cento anni», ha affermato sul palco, introdotto dalla discendente di una vittima.
Il film di quelle ore di un secolo fa è mozzafiato: le accuse, infondate, al ragazzo, Dick Rowland; il suo arresto; mille bianchi, decisi a linciare il presunto aggressore, che assediano il presidio di polizia; lo sceriffo con sei agenti che cerca di tenere a bada la folla; l’arrivo, in difesa di Dick, di gruppi di afroamericani armati. I miliziani bianchi cercano di disarmare un ragazzo nero. Parte un colpo e si scatena il finimondo. Mille case ed edifici commerciali distrutti, l’intera popolazione nera, 10 mila abitanti, costretta a fuggire altrove, 800 feriti, mentre il conto dei morti resterà un mistero: 36 di cui 10 bianchi secondo il conteggio ufficiale del tempo. Centinaia, quasi tutti neri, secondo altre ricostruzioni, compresa quella della Croce Rossa. L’enormità di quanto accaduto, con i neri bersagliati anche dal cielo da aerei civili pilotati da bianchi, spinse i politici locali a calare, più che un velo, una saracinesca di oblio su questa tragedia. Le inchieste non approdarono a nulla, non ci furono condanne, del massacro di Tulsa non si parlò più, nemmeno a scuola: il massacro non fu mai inserito nei programmi didattici.
Fino a oggi. Nel clima di risveglio delle coscienze maturato con le proteste dell’ultimo anno, dall’uccisione di George Floyd in poi, è venuto il momento di raccontare anche la guerra di Tulsa a un’America che ignora questa pagina tremenda della sua storia: le vittime furono soprattutto nere, ma a sparare furono anche afroamericani armati che uccisero molti bianchi. In queste ore diversi documentari su Tulsa vengono proposti dalle reti televisive, e Biden ha commemorato l’eccidio in un clima teso: le indagini giudiziarie e quelle parlamentari bipartisan condotte dal 2000 in poi hanno attribuito la responsabilità dei disordini ai bianchi, ma i suprematisti non hanno mai accettato questo verdetto. Forse è anche per il timore di contromanifestazioni che è stato cancellato il grande evento politico-musicale che doveva essere animato da John Legend e Stacey Abrams.