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 2021  giugno 02 Mercoledì calendario

Intervista a Ken Loach

 «Non mi sento per nulla uno sconfitto. Né ritengo sconfitto il ceto sociale che ho sempre difeso.
Semplicemente perché credo che un giorno vinceremo. Il capitalismo per sopravvivere deve aumentare sempre di più le sue dosi di sfruttamento, e questo lo porterà alla fine». A 85 anni – li compie il 17 giugno – Ken Loach non si è ancora arreso. «Non do importanza alle ricorrenze, stavolta mi concederò un bicchiere di vino rosso in più», racconta il regista dalla sua casa di Bath, Inghilterra del Sud. Il suo primo viaggio dopo la pandemia dovrebbe essere a Roma, a luglio, per accompagnare la retrospettiva dei suoi film al Casale della Cervelletta (ma anche a San Cosimato, Trastevere): «Spero di poter essere al fianco dei ragazzi del Cinema America, pandemia permettendo. E anche rivedere gli storici amici di Vigne Nuove, dove sono stato due volte. Tutti loro lavorano in una parte di città simile a quella in cui operiamo noi in Inghilterra, senza strutture. È una zona operaia, gli alloggi non sono il massimo, si lavora moltissimo. Portare lì cultura, conoscenza e film è fondamentale».
Introdurrà “Sweet Sixteen”, un film perfetto per i ragazzi.
«È la storia di ragazzi di sedici anni in un sobborgo di Glasgow, un ex cantiere navale che si è fermato bloccando anche il loro futuro.
Quella che dovrebbe essere l’età più dolce diventa disperazione, vita dura e scelte terribili, lavori difficili, la droga come scappatoia. Eppure malgrado il contesto questi ragazzi trovano l’umorismo, si godono i momenti della vita».
I giovani sono una delle fasce più penalizzate dalla pandemia.
«Sì, e trovo offensivo che per studiare nel mio Paese debbano riempirsi di debiti, migliaia di sterline da ripagare ai governi di destra. E a parte l’università, le prospettive di lavoro sono poche, insicure, casuali».
Il problema più grave nel suo Paese in questo momento?
«Ce ne sono molti. Il più grande è la disuguaglianza, che si è polarizzata.
L’aumento del lavoro precario: autisti, operatori sanitari, negozianti, addetti alle pulizie e persino molti professionisti scoprono che la sicurezza del lavoro non c’è più e il post pandemia sarà peggio. Finiti i sostegni ci sarà meno lavoro e salari più bassi. La povertà aumenta, gli enti di beneficenza saranno presi d’assalto. Centinaia di migliaia di famiglie e bambini senza questi enti non avrebbero mangiato. E poi c’è una ricchezza, grottesca, per pochi».
La pandemia ha cambiato le persone in meglio o in peggio?
«A livello individuale c’è stata solidarietà. I vicini ci hanno fatto la spesa perché siamo piuttosto vecchi, è successo a molti di noi. E anche noi abbiamo aiutato altre persone. Ci sono tante associazioni di beneficenza, piccoli fantastici meccanismi di supporto. Nella crisi si tira fuori il meglio. Ma a livello di governo, è successo altro. C’è un’agenda politica, economica, sociale, un volto duro, uno spirito meschino che ha a che fare con la protezione dello status quo».
Quali sono stati i momenti critici del suo Paese che lei ha vissuto?
«Sono stato bambino durante la Seconda guerra mondiale. A parte i bombardamenti, ho realizzato solo dopo la tragicità orribile dell’evento.
Poi, per me, l’evento più importante politicamente è stato il grande sciopero dei minatori di carbone negli anni 80: la classe operaia è stata sconfitta e i partiti di destra, inclusi i socialdemocratici di destra, da allora hanno usato quella sconfitta per minare i diritti dei lavoratori. Se avessimo vinto avremmo posto fine alla corsa al neoliberismo nel nostro paese e forse in tutta Europa. Ma abbiamo perso. E poi è stata una porta per distruggere i diritti dei lavoratori e ha aperto la strada all’economia dei salari più bassi dei posti di lavoro insicuri. Infine la speranza e la catastrofe per la guerra fatta a Jeremy Corbyn, un uomo di sinistra che si batteva contro le privatizzazioni e per i diritti dei sindacati. L’ala destra del suo stesso partito lo ha distrutto. Avevamo quasi vinto le elezioni nel 2017. E in pochi in Europa lo sanno perché i media, la stampa e la Bbc sono stati silenti. C’è stata una sorta di assassinio politico».
Ma non si sente uno sconfitto.
«No. La gig economy ha spinto al massimo lo sfruttamento, non ha via di uscita, collasserà. Penso che una sinistra organizzata in tutta Europa sia una possibilità. È dura, ma è una possibilità».
Che bambino è stato?
«Non ho avuto fratelli e sorelle, cosa che ha reso tristi i miei. E così mi sono preso cura di me, ho avuto tanti amici. Da figlio unico passi più tempo da solo, pensi, leggi di più. La mia prima grande passione sono state lettura e scrittura, purtroppo senza speranza. Non avrei mai immaginato che avrei fatto cinema».
Il momento migliore e peggiore della carriera?
«Il peggiore è quello in cui sai di non aver fatto un buon lavoro, anche se ci hai creduto. Poi è stato difficile quando, negli anni 80, i miei documentari sono stati banditi dalla tv per motivi politici. Ho fatto per un breve periodo pubblicità, non mi piaceva, è stato necessario. Ma sono anche stato molto fortunato: Kes dal romanzo di Barry Hines, grande scrittore della classe operaia, ha avuto una grande accoglienza. Con lui ho imparato moltissimo».
Nel 2022 saranno 50 anni di matrimonio con Lesley Ashton.
«Non posso dire molto, è nella stanza accanto. Mi ha dato tanto, l’equilibrio e l’energia da investire nel cinema.
Sarebbe bello poter fare un altro film, non so se fisicamente sarà possibile.
Con Paul Laverty, che ha vent’anni di meno, le idee ci sono. Incrociamo le dita».