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 2021  giugno 02 Mercoledì calendario

Ilva, cosa accadrebbe se il Consiglio di Stato si pronunciasse per la chiusura dell’area a caldo


Qual è la posta in gioco a Taranto? Che cosa si decide in questi pochi giorni che precedono il pronunciamento del Consiglio di Stato sulla chiusura dell’area a caldo di Arcelor Mittal? L’azienda, com’è comprensibile, non parla. Ma gli imprenditori dell’acciaio sono in subbuglio. Come sarà il sistema industriale italiano senza l’acciaieria di Taranto?
I 5 milioni di tonnellate di acciaio primario che il polo pugliese, il più grande d’Europa, produrrà nel 2021 sono meno della metà degli 11 milioni che è in grado di sfornare in condizioni normali. L’acciaio di Taranto è diverso perché nasce dal minerale e non dal rottame di ferro che alimenta i forni elettrici: «La differenza – diceva ieri un imprenditore del settore – è quella che passa tra chi cerca di recuperare una maionese impazzita e chi parte da zero, dall’uovo e dall’olio». Per questo il prodotto di Taranto è più pregiato degli altri: perché miscelando in modo diverso le quantità di minerale all’inizio del processo si producono acciai diversi a seconda delle esigenze. Si può ottenere lo stesso risultato con un sistema produttivo più verde, come quello che prevede i forni a gas o quelli elettrici?
In tutti questi mesi Arcelor Mittal ha sempre accettato le proposte di modifica avvertendo però che la transizione non potrà essere immediata. «Nel 2021 – aggiungeva ieri un socio di Federacciai – produrre acciaio partendo dal minerale costa dieci con il sistema tradizionale e cento con i forni alimentati a gas». Così oggi quello della produzione verde rischia di diventare un sogno pericoloso, un’allegra fuga dalla realtà nell’immediato irrealizzabile.
Dunque che cosa accadrebbe se il Consiglio di Stato imponesse la chiusura dell’area a caldo e lo spegnimento degli altiforni? Semplice: si fermerebbe la più grande acciaieria d’Europa. Per riaccendere un altoforno dopo lo spegnimento sono necessari fino a 15 mesi senza alcuna garanzia che l’operazione riesca. Nel frattempo il mercato si sarà adeguato alla nuova situazione acquistando il prodotto altrove.
L’unica strada dunque sembra essere, per Taranto, quella di convivere con la grande fabbrica lavorando per il progressivo miglioramento dell’impatto ambientale. Ipotesi che non piace alle amministrazioni locali. A meno che non possano entrare in gioco con l’accordo di programma che chiedono da tempo per avere un ruolo nella partita. Il cui copione è, in realtà, già scritto. L’Autorizzazione integrata ambientale del 2012 impone di coprire i depositi di ferro e carbone entro il 2023. Gran parte del lavoro è stato fatto. E oggi le polveri che si alzano dai depositi sono meno insidiose di un tempo. Si sta lavorando anche ad abbattere le emissioni delle cockerie. «Nell’agosto 2023 – dicono all’Arcelor – il lavoro sarà finito».
Lunedì scorso una sentenza di primo grado ha condannato la famiglia Riva e ha disposto la confisca dell’area a caldo. «Lei comprerebbe una casa con una crepa?», chiedeva ieri un imprenditore. Chi sarebbe disposto a investire su una fabbrica con quella spada di Damocle?
Più semplice investire in stabilimenti francesi, come ha annunciato ieri la stessa Arcelor Mittal. Un piano b nel caso in cui il Consiglio di Stato obblighi alla chiusura dell’area a caldo? Non è dato saperlo. Certo se Taranto si fermerà il mondo non smetterà di produrre acciaio. Semplicemente lo farà da un’altra parte: per rimanere in Europa oltre alla Francia anche e soprattutto in Germania. E le aziende italiane lo pagheranno di più, tutti pagheremo di più il nostro acciaio. Quello che ci circonda nella vita quotidiana: dalle auto alle pentole. L’ultimo paradosso di questa storia è quello degli ambientalisti. Che nella loro battaglia hanno scelto di abolire del tutto la plastica. Per questo Greta Thurnberg ha scelto di dire addio alla vecchia bottiglietta sostituendola con una più ecologica borraccia di acciaio.