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 2021  giugno 01 Martedì calendario

Intervista a Paolo Simoncelli, il babbo di Marco

SCARPERIA (FI) – «Il minuto di silenzio, la gara in suo onore, la dedica dopo la vittoria. Tutte sciocchezze. Dopo che ti è morto un figlio, cosa vuoi che ti freghi di queste robe inutili? Niente. Sei in un altro pianeta, amico mio: la gente dovrebbe capirlo, avere il rispetto della confusione che ti ritrovi in testa. E lasciarti in pace per un po’. Perché in quei momenti lì non ti interessa proprio nulla, della vita intorno». C’è una sola persona che può spiegare cosa stiano provando i genitori di Jason Dupasquier, il pilota svizzero 19enne morto per le conseguenze dell’incidente al Mugello. Uno che lo sa bene, come ci si sente. Che forse lo può esprimere anche meglio di loro. Paolo Simoncelli. Il babbo di Marco – il Sic – domenica s’era negato: «Oggi non me la sento». Dopo una notte passata a piangere e pensare, accetta di parlare. «Il motomondiale senza pietà? No: è la vita che continua. E la dobbiamo accettare. Anche se non ci piace»
Da dove cominciamo?
«Da quello che ti passa davanti in questi momenti, quando perdi un figlio in pista. Non è quello che succede nel paddock, o al via di una gara: quei luoghi, dove magari hai trascorso tutta la tua vita, di colpo cessano di esistere. Ti trovi in un altro mondo. Non capisci nemmeno dove: però è lontano.
Irraggiungibile per gli altri. E stai sicuro: non ti importa nulla, di tutto il resto».
A Jason Dupasquier hanno dedicato un minuto di silenzio in griglia, e un quarto d’ora dopo è scattato il semaforo verde della MotoGp.
«Non mi è piaciuto. Andava evitato. Qualcuno lo avrà considerato un omaggio, una maniera per esternare rispetto nei confronti di familiari e amici della vittima. Grazie, ma credetemi: i minuti di silenzio sono una cosa veramente angosciosa ( si commuove ). Non si possono sopportare. Io li eliminerei. A maggior ragione, poco prima di accendere i motori».
Molti piloti non avrebbero voluto correre.
«Quella dei piloti è una cosa del tutto personale, ognuno ha una diversa sensibilità. È sempre difficile giudicare una tragedia. Se è morto un ragazzino che non conoscevi ma inseguiva il tuo stesso sogno, come reagisci?
Chissà. Però ai piloti avrebbero dovuto chiedere cosa ne pensavano, prima di schierarli in griglia».
Valeva la pena scendere in pista?
«Se la sono sentita, è giusto così».
Forse gli organizzatori della Dorna sono stati un po’ cinici, chiedendo ai piloti di celebrare Jason e subito dopo accendere i motori. Troppa emozione.
«Non credo: è la vita. Che continua. Siamo tutti eroi, ciascuno a modo suo, e le cose vanno avanti. Ogni giorno. Ci mancherebbe, tutti hanno il diritto di fare quel che vogliono ed eventualmente giustificare scelte, risultati. Però non si può fermare l’orologio.
Nemmeno la vita».
Ha detto che l’altra notte non ha dormito.
«Sono stato male. Ci ho pensato fino all’alba. Avevo letto del trauma cerebrale di Jason, qualcuno sosteneva che – se fosse sopravvissuto – nella migliore delle ipotesi poteva restare attaccato a una macchina. Fino a ieri credevo di essere stato fortunato, perché il mio Marco era morto subito: cioè, non era rimasto disabile. Ma poi ho visto un caro amico accarezzare la testa al figlio costretto su una sedia a rotelle dopo un incidente di motocross: forse era meglio se anche Marco finiva così ( ora singhiozza)».
Dicono: le gare in moto siano troppo pericolose. Si pensa solo al business. Non era meglio fermarsi, dare un segnale?
«Marco è morto a Sepang, il circuito più sicuro al mondo. La sicurezza in pista ha raggiunto il top: vie di fuga, barriere, caschi, air-bag. Difficile fare meglio. Ma dove c’è velocità c’è pericolo.
Succede anche a piedi, o in bicicletta: se cadi a 60 all’ora, ti ammazzi. È così. Se cade un aereo, fermano gli aeroporti? Se qualcuno fa un incidente in auto, chiudono le autostrade? Vivo in campagna: metti che uno si ribalta col trattore e ci resta schiacciato sotto, cosa facciamo?».
I ragazzini della Moto3 sono spericolati, e con quel vizio delle “scie” rischiano troppo.
«Mio figlio, una delle 3 vittime degli ultimi 10 anni, è morto in MotoGp. Luis Salom correva in Moto2. La tragedia di Dupasquier è successa al Mugello, dove c’è un rettilineo che se non sfrutti la scia di un avversario sei fregato. Non demonizzate la Moto3. O gli organizzatori si decidono a fare una chicane in mezzo, trasformandolo in una retta normale, o altrimenti con un dritto così – come è successo in gara – cominci in testa e ti ritrovi 15° alla prima curva. E non ci sta nessuno».
Conosceva Jason Dupasquier?
«So che ultimamente stava andando forte, cominciava a maturare: sarebbe diventato un bel pilota. Il padre, Philip, è stato un buon crossista: nel 2017 me lo aveva presentato il mio capotecnico, Fabio Balducci. Ha un altro figlio, più piccolo: pure lui corre in moto».
Se potesse parlare al papà, cosa gli direbbe?
«Neanche un parola. Lo abbraccerei. Perché quanto ti succede una roba così, non c’è più niente da dire. E gli altri non sanno ( piange )».