la Repubblica, 1 giugno 2021
Il New Deal di Biden
L’ascesa al potere di Xi Jinping nel 2012 ha accentuato questa tendenza: in seguito sono stati gli investimenti delle aziende pubbliche ad aver preso il sopravvento su quelli privati.
L’analogia con gli Stati Uniti è reale. La crisi del 2008-2009 produce diversi shock politici anche nella rivale, sull’altra sponda del Pacifico. Non tutti gli shock sono visibili subito; alcuni saranno compresi e misurati con anni di ritardo. Il 2008 vede in America l’elezione di Barack Obama, anche lui protagonista di un “ritorno dello Stato”, per i salvataggi con denaro pubblico delle banche e dell’industria automobilistica (gli aiuti per le case produttrici di Detroit vengono gestiti all’epoca dal vicepresidente Biden). Emerge un’ala sinistra radicale del partito democratico, con il movimento Occupy Wall Street, che vorrebbe da Obama molto di più: una forte politica redistributiva che colpisca i privilegi dell’ “un per cento”. Non ci riesce, anche perché il movimento Occupy rimane una frangia minoritaria. La sua enorme visibilità mediatica, però, rilancia la popolarità di un vecchio socialista come Bernie Sanders e crea una nuova star della sinistra, Elizabeth Warren. Occupy si può considerare una delle fucine di un nuovo movimentismo radicale, che qualche anno dopo lancerà anche la star della politica newyorchese Alexandria Ocasio- Cortez, la sinistra no-border che vuole spalancare le frontiere agli immigrati, infine l’antirazzismo estremo di Black Lives Matter. Anche a destra lo shock del 2008-2009 provoca una rivoluzione: il Tea Party Movement prefigura il trumpismo, la conversione populista del partito repubblicano, cavalca il malcontento di ceti operai e ceti medi che vedono una sinistra troppo vicina all’establishment globalista. La “trappola cinese”, la globalizzazione distruttiva per interi settori dell’economia americana, diventa un tema forte.
I paragoni tra l’America e la Cina vanno maneggiati con tanta prudenza. La prima è una democrazia dove si vota con frequenza perfino eccessiva (i suoi cicli elettorali sono biennali); la seconda ha un regime autoritario dove nessuno elegge i capi. Analizzando gli Stati Uniti è imprudente evocare cicli politici di lungo periodo, vista l’oscillazione impazzita di un pendolo elettorale che ci ha dato Clinton – Bush – Obama –Trump – Biden. Però è possibile intravvedere una certa “sincronia” del ciclo politico perfino tra due sistemi politici agli antipodi.
Con 1.900 miliardi di dollari di spesa già erogati per ridurre le diseguaglianze, e altri 4.000 miliardi proposti al Congresso per Build Back Better, “ricostruire meglio”, è evidente l’enorme portata politica delle manovre a cui Biden aspira. Vuole demolire la rivoluzione neoliberista che ebbe inizio con Reagan nel 1980. Biden di fatto ha messo insieme un grande piano di lotta alla povertà e redistribuzione dei redditi a favore del ceto medio, e un rilancio in grande stile di investimenti pubblici in infrastrutture. È un ribaltamento anche ideologico, una riabilitazione del ruolo dello Stato che torna al centro della politica economica. La convergenza con la svolta cinese è anche nella politica industriale dove Biden invidia i successi di Pechino, anche nelle energie rinnovabili. Così come nell’antirust: Xi Jinping è stato più efficace nel contenere lo strapotere di Big Tech. Poi subentra la politica, però. Biden vuole “rifare” il New Deal di Franklin Roosevelt e la Great Society di Lyndon Johnson, i due maggiori esperimenti di riformismo socialdemocratico Usa. Roosevelt e Johnson avevano maggioranze oceaniche al Congresso. Biden ne ha una fragilissima, e potrebbe perderla tra un anno e mezzo.