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 2021  maggio 31 Lunedì calendario

Nelle miniere di pietra galleggiante

Il «bastarduni» di Malaparte fu davvero fenomenale. «Ci recammo a Canneto, dove son le miniere di pomice, e raccolto un enorme blocco di quella porosa e leggera pietra che all’aspetto sembrava un blocco di granito di una decina di tonnellate, ma che in realtà pesava appena un paio di chili, lo sollevai sulla mia testa con ambe le braccia sorridendo. Il fotografo fece scattare l’obbiettivo, e così fui ritratto in quell’atteggiamento atletico. I giornali italiani pubblicarono la fotografia, e mia madre mi scrisse: “Sono felice di vedere che stai bene, e che sei diventato forte come un Ercole”».
Contenta la mamma, contento il Duce, soddisfatto lui, lo scrittore al confino, che aveva ribaltato in uno sberleffo la stupidità del regime: «Quando ero deportato nell’isola di Lipari i giornali francesi e inglesi annunziarono che ero molto malato, e accusarono Mussolini d’incrudelire contro i condannati politici. Ero, infatti, molto malato, e si temeva che fossi tubercolotico», scriverà ne La pelle, raccontando che lo stesso Benito «diede ordine alla polizia di Lipari di farmi fotografare in atteggiamento sportivo e d’inviare la fotografia a Roma, al ministero degli Interni, che l’avrebbe fatta pubblicare nei giornali per mostrare che godevo di buona salute. Così, una mattina, venne da me un funzionario di polizia con un fotografo, e mi ordinò di assumere un atteggiamento sportivo». Il battibecco tra i due sugli esercizi fisici fu irresistibile. Finché lo sbirro sentenziò solenne: «I muscoli servono più del cervello. Se aveste avuto un po’ più di muscoli, non sareste qui». Sic.
Tornasse oggi a Lipari Curzio Malaparte faticherebbe però assai a trovare un «bastarduni» così spropositatamente grande da accontentare le aspettative di quel burocrate ducesco. La pietra pomice che con l’ossidiana è stata per millenni l’unica ricchezza dell’isola, venduta in tutto il Mediterraneo poi in tutto il mondo in blocchi per l’edilizia (perfino la cupola del Pantheon è in larga parte di pomice e scoria vulcanica: sennò sarebbe pesata troppo), in pietre più piccole (per la cura dei piedi dai tempi più remoti) o in polvere finissima (per i prodotti di bellezza), è stata infatti pressoché abbandonata da anni. Peggio: è sull’orlo di un’insana rimozione. Una cancellazione pressoché totale del passato. Che te ne fai di vetusti mulini e rotaie e carrelli e pontili, se i cavatori che ci lavoravano sono da un decennio parcheggiati nel limbo dei lavori socialmente utili e i liquidatori di quel piccolo mondo antico hanno solo una dannata fretta di liberarsi del materiale ferroso da vendere a peso, come fossero rottami industriali della Ruhr?
Per anni una pattuglia di storici, appassionati, cultori di memorie dell’arcipelago trainati dal Centro studi eoliani ha coltivato la speranza che il patrimonio letterario, artistico, paesaggistico potesse dare vita a un museo minerario diffuso. Per custodire una storia assolutamente unica sul rapporto tra le isole e i vulcani, la bellezza e lo spavento, la vita e la morte, citata tra gli altri da Diodoro Siculo, Strabone e giù giù fino ad Alexandre Dumas («Lipari, con la sua roccaforte costruita su una rupe e le sue case che assecondano le curve del terreno, offre un’immagine delle più suggestive») o Guy de Maupassant, che descrive «una curiosa montagna bianca che, da lontano, sotto un cielo più freddo, potrebbe scambiarsi per una montagna innevata. Ed è qui che si estrae la pietra pomice per l’intero mondo».
Quel progetto però, a dispetto delle ragioni che nel 2000 spinsero l’Unesco a riconoscere le Eolie come patrimonio dell’umanità non solo per la sfolgorante bellezza, ma per i «peculiari aspetti vulcanici delle isole (che) rappresentano in modo esemplare l’oggetto degli studi della vulcanologia mondiale», non è mai riuscito a sfondare. E rischia di restare un sogno. Alla deriva nel mare blu come «L’isola di pietra galleggiante» sulla quale nel 1934 uscì sulle pagine culturali del «Corriere» un elzeviro firmato «Candido».
Chi c’era dietro quel nome fittizio scelto per scrivere dal confino alla faccia del Duce? Ancora Malaparte. Che, dopo aver descritto il «gregge di casupole diroccate» e «il vecchio marinaio Valastro con un solo occhio in fronte come Polifemo» e «le murene nascoste fra gli scogli (che) tremano di dolcezza, come fanciulle che aspettano l’innamorato», raccontava come «dall’America e dalla Francia vengono i bastimenti davanti ad Acquacalda a caricare la pietra pomice cara a Catullo, leggerissima, candida, dolce al tatto e morbida all’unghia, come la pelle di una giovinetta; eppure durissima e scabra se non la sai lisciare per il suo verso»... Fino a dipingere quelle che oggi vengono chiamate «bombe d’acqua» sul monte Pilatu quando «le piogge improvvise trascinano giù per i fianchi del monte fiumane precipitose di ciottoli di pomice, che si rovesciano in mare come valanghe» e «le onde, il vento, le correnti spingono alla deriva quei fiumi di pietre, che a poco a poco dilatandosi formano un immenso tappeto bianco: sembra, di lontano, una innumerevole moltitudine di gabbiani in riposo, una nuvola a fior d’acqua, un’isola errante» come quelle cui alludeva Omero con la «favola d’isole vagabonde»...
Un delitto: ecco cosa sarebbe la perdita d’ogni memoria della pomice e dell’ossidiana, le «pietre sorelle», una bianca e l’altra nera, generate dalle eruzioni. E legate al mito delle navi che per vendere ovunque le dure e affilatissime punte di lancia e coltelli solcavano il Mediterraneo, scrive lo storico Pino La Greca in Eolie, porte degli inferi, «seimilacinquecento anni prima di Colombo e quattromila prima di Ulisse». Il quale, peraltro, fu indirizzato a rientrare verso Itaca da Eolo, che dell’arcipelago era il signore...
Quanto agli inferi e al Pilatu, il vulcano dormiente dal 1230, come dimenticare la morte di Teodorico annunciata da un anacoreta di grande virtù che viveva a Lipari e fu rivelata alla fine del VI secolo da papa Gregorio Magno ne I Dialoghi? «Ieri, all’ora nona, senza cintura né calzari e con le mani legate è stato condotto, tra papa Giovanni e il patrizio Simmaco, nel cratere di questo vicino vulcano e vi è stato gettato dentro». Immagine che sarebbe pesata per secoli. Tanto da spingere Giosuè Carducci a tornarci sopra: «Ecco Lipari, la reggia/ Di Vulcano ardua che fuma/ E tra i bòmbiti lampeggia/ De l’ardor che la consuma:/ Quivi giunto il caval nero/ Contro il ciel forte springò/ Annitrendo; e il cavaliero/ Nel cratere inabissò».
Più ancora che verso i richiami letterari, la cancellazione della memoria sarebbe offensiva però verso i nonni eoliani che affrontarono gli inferi per strappare loro il pane per vivere in quel «paradiso che non sfama», come lo chiamò Francesco Rosso in uno strepitoso reportage su «La Stampa» del 1961: «Le montagne si elevano come orridi strapiombi immacolati fino a più di trecento metri e gli operai si arrampicano avanzando un passo dietro l’altro, lentissimi, scalfendo a poco a poco le pareti levigate a colpi di piccone e facendo scivolare a valle la breccia polverosa. Restano lassù otto ore al giorno, coi piedi appoggiati su fragili sporgenze della friabilissima parete quasi verticale, in posizione di equilibrio instabile che gli spacca la schiena. Nei mesi estivi, quando il sole saetta implacabile, lavorare lassù è pauroso. La roccia libera un calore intollerabile, la polvere cocente soffoca, la sete tortura, ed i meno forti cedono. Un capogiro, uno sforzo maldestro per muovere sulla liscia parete le gambe impiombate di stanchezza, e la voragine si spalanca sotto gli ignari...».