la Repubblica, 31 maggio 2021
Le lettere di Mozart
Wolfgang Amadeus Mozart non era soltanto il grande musicista che tutti esaltano. Era un grande scrittore. Inquieto demone di giochi verbali, beffe alla lingua, pastiches di idiomi, invenzioni di nomi, punteggiature, nonsensi. Nessuno sapeva comporre con quella grazia, leggerezza, buffoneria, con quelle frasi che si intricavano sfacciatamente tra loro, nascondendo la sua natura inafferrabile.
Siamo in Austria, verso la fine del XVIII secolo. Maria Teresa era una robusta imperatrice, mentre la frivolissima Maria Antonietta stava per offrire l’esile collo alla ghigliottina. L’impero viveva di vento, di un soffio di vento. Ogni tanto, per disattenzione o per caso, tutto diventava guerra, sia pure senza cannoni. Ogni cosa era teatro, balletto, farsa, lieve e grossolana risata, mentre francesi e austriaci e tedeschi combattevano fra loro. A Salisburgo, il 27 gennaio 1756 nacque – forse era incerto se nascere – Joannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus Mozart da Leopold e Anna Maria Pertl, detto con grazia Amadé. Il suo vero nome era Wolfgang, come quello di Goethe, nato qualche anno prima (l’editore Zecchini di Varese ha ripubblicato Tutte le lettere di Mozart
in tre volumi, a cura di Marco Murara).
Dagli anni Sessanta, giovane, piccolo e biondo, Wolfgang comincia a passeggiare per le strade e le piazze di Vienna, tra un viaggio e l’altro in ogni paese d’Europa. Tutto l’affascina, tutto gli sembra bello. Va goffamente a cavallo. Passeggia al Prater, specialmente di primavera. Frequenta le grandi e profonde osterie, dove paga il conto malvolentieri. Suona musica. Gioca astutamente a biliardo. Viene ammesso (come quasi tutti gli austriaci noti) alla loggia massonica “Zur Wohlthätigkeit”.
A Vienna c’è un altro personaggio pittoresco: Giovan Battista Casti, che inventa un numero immenso di ottave italiane in rima, oscene e oscenissime. Il giovane Mozart accompagna con grazia una bellissima pianista cieca: Maria Teresa Paradîse. Dopo gli anni Ottanta padroneggia gli opposti. Compone un’opera lieta e famosissima, Le nozze di Figaro, e il testo più oscuro, cupo e sinistro, il meraviglioso Don Giovanni, come se voglia dimostrare che tutte le arie e tutti i toni e tutti i gorgheggi sono suoi.
Ma nonostante il genio e gli scintillii della fama, la vita dell’artista è un’oscillazione di miseria e ambizioni, umore che si alza e si abbassa, acrobazie sul filo. Per di più, spesso Wolfgang (come tutti quelli della sua generazione) viene assalito da reumatismi e molti altri mali, e si fa salassare fino a quando a terra resta uno spesso grumo di sangue. Eppure il suo spirito di elfo attraversa rapido tutte le forme. Nell’inverno 1786 Mozart scrive una lettera al padre nel linguaggio misterioso di Ermes: «Mi si può avere senza vedermi. Mi si può portare senza sentirmi. Mi si può dare senza avermi».
Poi si nasconde tra il fuoco – scintillante fuoco egli stesso. «Non si addice a tutti essere modesti: solo i grandi uomini possono permettersi di esserlo». E poi: «Sono una cosa strana; non ho né anima né corpo; non mi si può vedere, ma mi si può sentire; non ho un’esistenza mia, solo un essere umano mi può far nascere, tanto spesso quanto vuole; e la mia vita è di breve durata, giacché muoio quasi nel momento in cui nasco».
Molto velocemente Wolfgang mette in scena Le nozze di Figaro. Il successo è inebriante. Ma torna il pericolo della guerra. Se c’erano stati gli scontri tra la Baviera e l’Austria, e poi la Lega dei Principi Tedeschi, l’ambizione dei russi sulla Crimea coinvolge anche l’Austria contro l’Impero ottomano, risveglia le tensioni con la Prussia. «Oggi, 28 aprile 1786 Le Nozze di Figaro va in scena», annuncia il padre Leopold. E Mozart, il 15 gennaio 1787 da Praga informa: qui non si parla che delle Nozze di Figaro : «Non si recita, non si suona, non si canta e non si fischia altro che Figaro; non si va a vedere altra opera che Figaro e sempre Figaro; certo un grande onore per me».
Nel 1791 Mozart non ha denaro e le committenze non bastano: dal 1788 lo finanzia soltanto Johann Michael Puchberg, un ricco mercante suo amico. Gli confida: «Da quando mi avete dato un così grande segno della vostra amicizia, ho vissuto nella disperazione – sono uscito, ma non ho potuto nemmeno scrivere, per la pena e l’angoscia. Non ho potuto dormire per il dolore». «Voglio lavorare, lavorare, lavorare per cose insensate».
Non ha ottenuto alcun vero incarico protettivo. Inventa contemporaneamente concerti, cantate per balli – dedicate anche ai santi – opere sacre, il Flauto magico con i due incantevoli Papageno e Papagena, e
La clemenza di Tito, per l’incoronazione di Leopoldo II. Con la sua profonda sensibilità religiosa compone il Te Deum Laudamus. L’anno precedente aveva scritto alla moglie: «Se la gente avesse potuto vedere nel mio cuore, mi sarei quasi vergognato. Tutti mi sembrano freddi, glaciali, sono tutti così vuoti». Il Requiem, del quale eseguirà una prova fin sul letto di morte, non sarà finito.
Nell’estate 1791 la moglie Constanze era incinta del sesto figlio, ed era sofferente. Andò a Baden, con il figlio Carl. Mozart la raggiungeva quando poteva. Ora stava un po’ meglio, ma doveva bere, in quella finta città di Turgenev e di Dostoevskij, almeno sessanta bicchieri d’acqua. L’11 giugno le scrisse, mescolando tenerezza e angoscia ai versi del Flauto magico: «L’ora batte, ci vedremo di nuovo»; «Ti bacio mille volte e dico, pensando a te: la morte e la disperazione furono il suo compenso». Nostalgia e senso di vuoto lo abitavano, sopraffatto dalle emozioni. Sapeva che l’ora batteva per lui.
In quella malinconia amorosa verso l’infinito, che scorre nella sua musica, e che prolunga tra le fibre nervose delle lettere, Mozart continuava sempre i giochi di parole, che ne affollavano soprattutto le chiuse: «Stammi bene, carissima, ottima mogliettina, abbi cuore della tua salute, anche se va tutto per storto. A me non importa di nulla: se soltanto sei in buona salute, sto bene anch’io...
Addio, mille baci, e mille schiaffi a lacci bacci». «Acchiappa – Acchiappa – Acchiappa bs bs. Nell’aria volano baci per te, eccone un altro che trotterella dietro agli altri».
Mozart muore la notte tra il 4 e il 5 dicembre, scrivendo però l’ultima lettera il 14 ottobre 1791. Constanze Mozart scrisse nel libro di famiglia di suo marito: «Ciò che hai scritto una volta su questo foglio per il tuo amico, lo ripeto qui per te, piegata dal dolore. Amatissimo sposo! Mozart indimenticabile per me e per tutta l’Europa, anche tu ormai riposi per sempre!! All’una dopo mezzonotte, nella notte dal 4 al 5 dicembre di quest’anno, egli ha lasciato, nel suo 36° anno – oh troppo presto! – questo mondo bello ma ingrato! – Oh Dio! Oh, che io possa essere unita a te per sempre.
La tua sposa pazza di dolore Constanze Mozart nata Weber».