il Giornale, 31 maggio 2021
Troppi diplomati ai Conservatori, tanti disoccupati
L’Italia vanta un primato europeo: conta il maggior numero di istituti musicali di alta formazione, dunque autorizzati a rilasciare lauree musicali di primo e di secondo livello. Sono 59 conservatori, 18 istituti ex-pareggiati ormai in fase di statizzazione e 5 istituzioni accreditate. A frequentarli in tutto 50mila studenti, il 10% dei quali si laurea ogni anno.
Sono pochi o sono tanti questi istituti (che nel resto dell’articolo – per comodità – chiameremo conservatori)? Dipende dal punto d’osservazione. Può essere utile fare un confronto con gli altri Paesi. La Francia ha un centinaio di conservatori municipali e 36 regionali, ma quelli abilitati a rilasciare titoli equivalenti a una laurea sono solo due: uno è a Parigi e l’altro a Lione. In Germania, Paese di riferimento per la formazione musicale, le Musikhochschulen sono 33, suppergiù un terzo delle nostre, e ciò in un Paese che ha 20 milioni di abitanti in più rispetto all’Italia e soprattutto 129 orchestre professionali finanziate dallo Stato a fronte delle nostre 27 (sostenute con fondi pubblici): ci riferiamo alle 13 cosiddette (...)
(...) Ico (Istituzioni concertistico-orchestrali) e alle 14 Fondazioni lirico-sinfoniche.
I numeri, dunque, non tornano. Qualcosa non va. Non va perché i nostri conservatori rischiano di diventare cattedrali nel deserto. Nel senso che stiamo assistendo alla desertificazione di orchestre e teatri, così come la sopravvivenza delle stagioni cameristiche si deve alla tenacia, e spesso al volontariato, di qualche organizzatore. La radice di tutti i mali è una: lo scarso peso che il nostro Paese e la sua scuola attribuiscono all’educazione musicale e questo nell’Italia che ha inventato strumenti, pentagramma, note, forme e generi musicali, tra cui l’opera. In mancanza di un’adeguata conoscenza o almeno sensibilizzazione all’arte della musica è poi difficile avere spettatori, consumatori, in una parola: mercato.
NON SOLO PALCOSCENICO
«Dai conservatori italiani escono fior di musicisti, però poi c’è il vuoto», commenta Marco Rizzi, violinista di lungo corso che qui coinvolgiamo per il suo ruolo di didatta nella Hochschule für Musik di Mannheim, oltre che di insegnante nel Conservatorio di Lugano e nella Escuela Superior de Música Reina Sofia di Madrid. «L’alto numero dei conservatori fa a pugni con il basso numero di orchestre», conferma il violoncellista Enrico Dindo, noto concertista, fondatore dei Solisti di Pavia e cattedra al Conservatorio di Lugano.
La musica dovrebbe entrare nei percorsi formativi: è questo il nodo cruciale del problema e che alimenta le continue battaglie del direttore d’orchestra Riccardo Muti che nei giorni scorsi – si legge sulle cronache – s’è confrontato con il ministro dell’Istruzione, «mi ha detto che si preoccuperà in modo concreto di riportare l’insegnamento delle musica dalle elementari l’università». Ed è sempre Muti a sollecitare la riapertura dei piccoli teatri sparsi per l’Italia affidandone la gestione a giovani musicisti per i quali si batte con parole e fatti: nel 2004 lanciò l’orchestra Cherubini per talenti italiani, una palestra di formazione triennale. Per dirla con Rizzi, «dobbiamo creare una catena di trasmissione fra formazione e professione» per evitare che i conservatori diventino fabbriche di disoccupati. Oppure di occupati in tutt’altre mansioni.
Il piano studi di conservatorio prevede diverse materie d’indirizzo, ma tutte riguardano lo studio di uno strumento musicale. Appresa la pratica del quale, e in alcuni casi congiuntamente ad altro, si possono poi intraprendere diverse strade professionali. C’è il filone esecutivo, declinato a seconda delle qualità musicali, tecniche e di personalità, si va dall’attività del concertista solista, alla musica da camera e orchestrale. C’è il filone della didattica, anche qui a vari livelli, quindi della ricerca, della comunicazione e del marketing musicali. L’industria culturale del nuovo millennio chiede figure diversificate. Il problema è che, con le dovute eccezioni, in conservatorio continua a prevalere l’orientamento all’aspetto esecutivo puro, se non addirittura al solismo.
L’INCOMPIUTA
Sui conservatori pende, poi, la spada di Damocle della legge 508 del 1999, non attuata nella sua interezza. La 508 avrebbe trasformato i conservatori in istituti universitari, equiparazione per tanti versi solo di facciata. «Abbiamo chiesto al Ministro che riconosca ai Conservatori la stessa dignità degli atenei da un punto di vista giuridico ed economico», dice Ivano Iai, avvocato, presidente del consiglio di amministrazione del Conservatorio di Sassari. «Così come vorremmo che la fase concorsuale fosse autonoma e non costruita sulla base di una graduatoria nazionale».
Perché per la scuola in generale e i conservatori nello specifico, il problema è sempre lo stesso: le modalità di reclutamento. Il successo di un istituto dipende da chi si porta a bordo, e il successo è difficile da conseguire se la selezione degli insegnanti si basa su graduatorie nazionali che hanno per parametro il numero degli anni di servizio anziché la qualità della vita artistica (a partire dai concerti fatti).
Se la situazione è quella fin qui descritta l’effetto inevitabile è che i nostri migliori concertisti finiscano per scegliere cattedre (spesso più che prestigiose) all’estero. Una realtà su cui incide il diverso trattamento economico: in Germania per dire si guadagna molto spesso tre volte tanto di quello che si porterebbe a casa rimanendo nella penisola. Ma non è tutta e solo una questione di stipendio. «Nel resto del mondo – spiega Dindo – i docenti sono selezionati tramite concorsi internazionali mirati sul posto vacante, prevedono almeno tre prove ed esigono che il candidato abbia una vita concertistica di rilievo». Selezionando in base ad un criterio meritocratico si crea una classe di docenti appartenere alla quale è motivo di vanto.
GERMANIA E NON SOLO
Alla fine, comunque, si torna all’interrogativo di partenza: gli 80 e passa conservatori sono troppi? La risposta da dare sembrerebbe un sì. Anche se molti tra gli stessi musicisti preferiscono le sfumature ai toni netti.
«Trovo efficace il sistema francese, una struttura piramidale che prevede una grande diffusione di conservatori regionali e municipali ma con due sole scuole di alto perfezionamento», dice Beatrice Rana, la nostra pianista italiana più nota internazionalmente e figlia, tra l’altro, di due docenti di Conservatorio. È sulla stessa lunghezza d’onda Dindo: «ci vorrebbero pochi conservatori di alto livello in un’Italia cosparsa di tante scuole di musica. Oggi i Conservatori si impegnano in iniziative lodevoli adattandosi a una situazione assurda. Si inventano, per esempio, corsi propedeutici per ovviare alla mancanza di una formazione musicale di base. La Germania è piena di orchestre amatoriali, so di un’orchestra di medici per esempio, questo accade perché è normale che tutti studino musica». Del resto, aggiunge Rizzi «il sistema tedesco prevede studi propedeutici e di pre-college che saranno poi la fucina cui attinge ogni singola Hochschule für Musik».
L’ARTE DI IMPROVVISARE
E poiché l’Italia è campionessa nell’arte dell’arrangiarsi, conosce realtà virtuose che ovviano al problema di partenza. Accade così che in una valle bergamasca possa nascere un’accademia privata come I Piccoli Musici di Casazza di cui conosciamo il coro per via del concerto di Natale che tiene ogni anno da Assisi in onda sulla Rai e in eurovisione, perché ci rappresenta all’Onu, canta per i papi, perché vince in concorsi internazionali issando la bandiera italiana. Così come è da menzionare l’attività di diffusione musicale svolta dall’Accademia Perosi di Biella. Per citare due casi. Non gli unici per fortuna. Anzi.