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 2021  maggio 30 Domenica calendario

Le poesie di Carver

Ogni volta che si parla delle poesie di Raymond Carver, si deve per forza dire anche del prosatore, dell’autore dei racconti. Da questo punto di vista, infatti, lo scrittore statunitense è ormai da tempo non solo un caposcuola, ma a tutti gli effetti un mito: il racconto breve ed essenziale, l’economia narrativa, l’incisività del parlato, le situazioni di vita comune, il minimalismo (definizione di per sé equivoca, in cui giustamente Carver poco si riconosceva), ma anche, inevitabilmente, le vicissitudini della breve vita, terminata a soli cinquant’anni nel 1988.
Di fatto il successo dei racconti – si pensi solo al riconoscimento planetario di raccolte come Di cosa parliamo quando parliamo d’amore (1981) e Cattedrale (1983) – ha messo in ombra una realtà che altrimenti sarebbe stata piuttosto evidente, ovvero che la poesia e il racconto nell’officina creativa di Carver si trovano fin dal principio esattamente sullo stesso piano; e che di conseguenza si tratta di uno scrittore con una flessibilità e un respiro più ampi di quanto in genere si tenda a credere. Se già dalla fine degli anni Cinquanta, ad esempio, scriveva alternativamente racconti e versi, i suoi primi libri editi sono comunque due raccolte di poesia (nel 1968 e 1970), mentre il suo primo volume di racconti Vuoi star zitta per favore? esce nel 1976, lo stesso anno della pubblicazione del suo terzo libro di versi.
Carver andrebbe dunque considerato come uno specialista, ma diciamo pure un maestro della narrazione breve, versi o prosa che sia. Dal punto di vista espressivo la sua prima necessità sta proprio qui: raccontare risparmiando fiato e parole, senza sviamenti e distrazione alcuna, per mettere a fuoco ciò che davvero conta di una certa storia, situazione, accadimento, destino. Sotto questo aspetto l’arte del verso e l’arte della prosa non sono che due diverse possibilità formali messe a disposizione di un’unica volontà di dire, come fossero due frecce dello stesso arco. Non è un caso che lo scrittore le avvertisse come profondamente affini. «In realtà – così chiarisce in un’intervista del 1984 – ho sempre sentito e sostenuto che la poesia, per gli effetti che ottiene e per il modo in cui è composta, sia più vicina al racconto di quanto il racconto lo sia a un romanzo. I racconti e le poesie si somigliano molto di più per lo scopo perseguito nel processo di scrittura, per la compressione del linguaggio e delle emozioni, e per la cura e il controllo necessari a raggiungere il loro obiettivo».
Il testo di questa importante intervista, inedito finora in Italia, si può trovare all’interno di un cofanetto in due volumi uscito da poco per le edizioni minimum fax e comprendente l’intera opera in versi di Carver: Tutte le poesie, a cura di William L. Stull, con una introduzione di Tess Gallagher, la poetessa americana che è stata la seconda moglie dello scrittore, nonché da ogni punto di vista una presenza fondamentale fuori e dentro il suo laboratorio creativo (le traduzioni, sempre riviste da Martina Testa, sono di Riccardo Duranti e Francesco Durante). Il lettore potrà dunque trovare riuniti i quattro libri di cui sostanzialmente si compone l’opera in versi di Carver nella sua sistemazione definitiva: Voi non sapete cos’è l’amore (1983), Racconti in forma di poesia (1985), Blu oltremare (1986) e Il nuovo sentiero per la cascata (uscito postumo nel 1989). In appendice sono riportate poi le poesie tratte dal volume miscellaneo Per favore, non facciamo gli eroi (1991), con l’aggiunta di alcuni componimenti dispersi.
Ma torniamo al rapporto tra verso e prosa nel segno comune della narrazione. Chi legga queste poesie provenendo dai racconti riconoscerà senz’altro un’aria di casa. Eppure Carver non è un autore che abbia sperimentato vie di mezzo, provandosi in quel territorio di scrittura liberamente oscillante tra verso, prosa narrativa, prosa saggistica e tant’altro, che negli ultimi decenni un po’ dappertutto ha finito col diventare perfino à la page. No, per lui il verso è il verso e la prosa è la prosa. I confini rimangono netti. Anziché venire stabilita a priori, la convergenza tra i due ambiti nel suo caso diventa però un fatto intrinseco, perché riguarda l’intonazione, il taglio delle immagini, la perentorietà degli enunciati, la precisione del dire. Anche una volta riconosciuto che una revisione editoriale oltremodo ideologica aveva estremizzato l’asciuttezza della sua scrittura facendola degenerare in anoressia, Carver resta comunque un prosatore della concisione, della formula più redditizia e incisiva, dell’espressione inequivocabile, che non concede repliche (non c’è mai nulla d’interlocutorio nei suoi racconti; anche i cosiddetti particolari, anche gli oggetti sono funzionali alla determinazione di una storia). Tutti attribuiti, in ogni caso, che si è soliti riportare al discorso poetico.
In modo reciproco, però, la sua poesia sposta il proprio baricentro verso l’esterno, disponendosi a una comunicazione franca e immediata, a venire compresa senza troppe mediazioni formali, a partire anzitutto dalla qualità, anche timbrica, della voce. Carver è un poeta che sempre e comunque racconta, non importa se vicende esterne o interiori, così non solo l’onore ma la plausibilità stessa della sua poesia si giocano per intero nella sua capacità di conquistarsi il credito di chi legge, di essere una voce avvincente, affidabile.

Da questo punto di vista, le sue poesie non chiedono di tornare indietro, di essere lette e rilette, in quanto la trama dei rapporti formali – ripetizioni, corrispondenze, rispecchiamenti interni – è ridotta al minimo, come se rappresentasse un ostacolo all’immediatezza e all’efficacia tutta in uscita di ciò che davvero preme dire. Certo, parole quali appunto immediatezza, naturalezza, comunicazione, andrebbero tutte interpretate, perché anche la frase in apparenza più spontanea è sempre il frutto di una stilizzazione. Ma sono comunque congiunture di questo tipo che più qualificano la fisionomia poetica di Carver: «Mi ha dato la macchina e due-/ cento dollari. Mi ha detto: Addio, bello./ Non te la prendere, capito? Tanti saluti/ a vent’anni di matrimonio». Vita vissuta, dunque, sempre e comunque: rapporti di coppia, riconoscimenti e spaesamenti, rotture e riparazioni, solitudini, comunioni, momenti estatici, sempre traguardati da una anche minima conquista conoscitiva. C’è tanto ossigeno, c’è tanta verità e vitalità in queste poesie, spesso e volentieri lì dove più si fa incombente l’ombra della morte. Forse anche più che nei racconti, nella poesia si rivela il valore non solo spirituale ma rituale che Carver riconosceva alla scrittura creativa. Quest’opera ci insegna che per morire bene è necessario vivere bene, il che poi significa che per non perdere la propria vita è necessario far la pace con lei: «Adesso basta./ Adesso, carissima, lasciami andare./ È ora di avviarsi».