La Lettura, 30 maggio 2021
«Scrivo degli inuit ma non li derubo»
Come Emilio Salgari che non vide mai Malesia, India o Caraibi, Bérengère Cournut racconta le avventure di Uqsuralik, giovane donna inuit, prima di avere visitato l’Artico. Nel fortunato romanzo Di pietra e d’osso (Neri Pozza), la terra degli inuit resta un luogo vago, un universo indistinto che potrebbe essere Groenlandia, Russia o Canada perché non viene mai circoscritto. Nelle prime righe la banchisa si spezza, nel cataclisma Uqsuralik viene separata dalla famiglia e comincia la lotta solitaria per la sopravvivenza. Benché popolato da orsi, foche e narvali, è un racconto universale, non etnico. Letteratura, non antropologia.
Bérengère Cournut, perché ha preferito non visitare il mondo degli inuit, pur protagonista del romanzo?
«Perché volevo immergermi nella cultura inuit e ho pensato che se fossi andata sul posto sarei stata soggiogata dal paesaggio, dalla natura estrema e così diversa da quella alla quale siamo abituati noi occidentali. In mezzo al ghiaccio sarei stata travolta dal lato avventuroso e invece io volevo raccontare il mondo Uqsuralik con il suo sguardo, lo sguardo della normalità. Sarei morta di freddo, quando per gli inuit il freddo non esiste, è la condizione abituale della loro esistenza».
E quindi come si è documentata?
«Ho privilegiato le fonti scientifiche, antropologiche, e ogni volta che è stato possibile i canti inuit originari, che per me è stato il miglior modo di capire come loro stessi percepiscono il loro mondo, come interagiscono tra loro e la natura».
Dove ha trovato le fonti inuit?
«All’inizio mi ha aiutato il mio editore del Québec, quindi fonti soprattutto canadesi. Poi ho continuato le ricerche in Francia e soprattutto al Museo di Storia naturale di Parigi, con gli archivi dell’esploratore polare francese Paul-Émile Victor, che passò 14 mesi con gli inuit della costa orientale della Groenlandia. Ho letto tutto il possibile per avere la sensazione di conoscere bene quell’universo ma senza andare laggiù con il rischio di farmi influenzare troppo dall’ambiente».
Il «laggiù» peraltro è lasciato indefinito nel romanzo, non è mai precisato dove si svolge l’azione.
«Nel mio romanzo precedente, ambientato in una tribù hopi dell’Arizona, sono stata veramente di un’esattezza etnologica totale. Stavolta ho preferito concedermi una forma di libertà, senza specificare in quale parte dell’Artico ci troviamo. Per potere parlare di diversi tipi di animali, di diverse usanze e anche per marcare il fatto che il mio approccio fosse letterario, non antropologico».
Anche l’epoca è imprecisata.
«Tendo a farlo in tutti miei testi, e stavolta c’era una ragione in più: negli ultimi cinquant’anni l’Artico è molto cambiato, e se avessi dovuto calarmi esplicitamente nella dimensione contemporanea avrei dovuto prendere in conto temi molto vasti come il riscaldamento climatico, di problemi sociali come la droga e l’alcolismo... Mi interessano molto, ma sono questioni molto recenti di fronte alle quali non abbiamo un distacco sufficiente. Io invece ho voluto parlare, sullo sfondo, di un modo di vita inuit che è rimasto immutato per secoli. E più che le difficoltà attuali ho voluto sottolineare la stupefacente capacità degli inuit di adattarsi a tutte le situazioni».
Come è nato questo interesse?
«Per caso. Mentre ero in Arizona per il romanzo precedente, un amico mi ha mostrato dell’arte inuit: sculture che mi sono parse magnifiche. Ho voluto saperne di più sulle persone capaci di scolpire animali in modo così semplice e insieme potente. E andando avanti nel lavoro di ricerca mi accorgevo che in fondo è quel che cerco di fare io con il mio stile letterario: provare a dire qualcosa in modo semplice e al contempo con una certa forza».
«Di pietra e d’osso» parla del rapporto dei vivi con i morti, del visibile con l’invisibile, di come si può sopravvivere alla scomparsa completa della propria famiglia e provare a costruirne un’altra. Sono temi universali, che non si trovano certo solo nell’Artico.
«Esattamente, questa è la mia ambizione. Provare a esplorare temi che riguardano tutti, con lo sguardo di una cultura diversa dalla nostra. Una cultura costretta dalle circostanze a non porsi mille domande ma andare all’essenziale, al nocciolo delle cose. Questo mi affascina dell’approccio inuit, nelle sculture che ho tanto amato e nella cultura che poi ho studiato: la semplicità come chiave di comprensione della realtà e della verità. E la capacità di avere una vita spirituale molto intensa, nonostante le condizioni ambientali estreme».
Si è posta la questione delle possibili accuse di «appropriazione culturale»? A me non sembrano quasi mai lecite, ma fanno parte dello spirito del tempo.
«Il tema dell’appropriazione culturale mi interessa molto, lo trovo legittimo. Mi sono posta la questione dal primo giorno in cui ho scritto sugli hopi dell’Arizona. Quel libro e questo sugli inuit li ho scritti perché sentivo di non poterne proprio fare a meno ma mi sento molto aperta alla critica e alle ragioni di chi contestasse la mia scelta. Dopodiché mi sono lasciata convincere dal mio entourage che la letteratura può essere una specie di zona franca, il luogo dove prendersi tutte le libertà possibili. Perché altrimenti, spingendo la logica dell’appropriazione culturale alle estreme conseguenze, non potrei fare vivere personaggi maschili nei miei romanzi giusto perché sono una donna».
Il libro è tradotto in inglese?
«No, ci sono già sei o sette edizioni in lingua straniera ma non ancora in inglese, e devo dire che per me è quasi un sollievo perché mi dispiacerebbe che questo libro venisse vissuto come un insulto a una cultura diversa dalla mia. Ma penso che la questione possa essere posta, se è farlo è la persona giusta, quindi in questo caso se fosse un inuit a lamentarsi del fatto che mi sono appropriata della sua cultura. Cosa che finora non è successa, neanche quando sono andata in Alaska».
Quindi alla fine il viaggio nell’Artico lo ha fatto.
«Sì, quando avevo finito di scrivere il romanzo. La rivista francese “America” mi ha proposto di tornare in Arizona, allora io ho spiegato loro che il libro nuovo parlava di tutt’altro, allora mi hanno proposto di andare per loro in Alaska».
E com’è andata?
«Ho posto direttamente la questione a un anziano signore inuit. Gli ho chiesto che cosa ne pensasse dal fatto che una francese che non aveva mai messo piede in Alaska si fosse permessa di scrivere un romanzo sul suo mondo. Gli ho raccontato un po’ la trama, gli ho parlato dei canti inuit che ho inventato ispirandomi a quelli originali».
E che cosa le ha risposto?
«In modo molto pragmatico: “Non conosco nessuno che scrive romanzi. E se tu riesci a salvarci dall’oblio, è una buona cosa. Se parli delle nostre tecniche di caccia quando la metà dei nostri giovani non sa più che cosa siano, sono solo contento”. Certo, un parere personale, ma mi ha fatto piacere. Per me la letteratura è un terreno di incontro, per questo sono pronta a dibattere su questo tema. Mi piacerebbe meno che a farmi un’obiezione di questo tipo fosse qualcuno che non appartiene al popolo inuit. Non apprezzo il terrorismo intellettuale».