La Lettura, 30 maggio 2021
L’impossibilità di non essere ebrei
Temo di non essere abbastanza esperto di religioni monoteiste da mettermi a disquisire sui tratti salienti che distinguono l’una dall’altra. Non senza imbarazzo – guidato dal buonsenso, dall’esperienza, dall’infarinatura erudita – mi domando se, tra le suddette confessioni, non sia l’ebraismo quella più consapevolmente esposta ai rischi dell’assimilazione.
Comprendo che, dal punto di vista del pio osservante, affrontare certe questioni da una prospettiva storica, e quindi scettica, profana, sorvolando su aspetti devozionali, liturgici, dottrinari, possa apparire un esercizio ozioso e sconsiderato. Il fedele ha diritto di diffidare il miscredente dal mettere il naso in questioni che, in virtù del suo rifiuto di Dio, non dovrebbero riguardarlo. Ma, anche in questo, mi pare che l’ebraismo autorizzi un discorso alternativo. Conosco parecchi atei di origine ebraica che faticano a sbarazzarsi dei propri atavismi. Se li interroghi sulla faccenda, ti rispondono che il giudaismo ha smesso da tempo di essere una religione come le altre. Anzi, forse non lo è mai stato. E allora cosa? Non una razza, per l’amor del cielo, e nemmeno un’etnia; più che altro un humus, un brodo, uno state of mind: tremila e passa anni di resistenza che, oltre a lusinghieri successi mondani e a indicibili tribolazioni, ha garantito ai suoi adepti di non scomparire e, nei casi più fausti, di affermarsi e prosperare.
È così – tanto per fare un esempio che mi sta a cuore – che la pensa mio padre. E con lui parecchi suoi omologhi. Qualsiasi ebreo praticante, per non dire dell’ortodosso, potrebbe accusarlo di aver inferto un bel colpo all’ebraismo sposando una cattolica e mettendo al mondo un paio di meticci dalle idee confuse, privi sin dal principio del privilegio di un’identità sicura e di una patria morale codificata. Resta comunque il fatto che l’ebreo è, per natura e destino, lusingato dalle sirene dell’ibridismo e del mimetismo. Gli piace essere ebreo, ma spesso e volentieri preferisce far finta di essere altro. Che non sia questa contraddizione irrisolvibile (faccio mia la possibile contro-obiezione di mio padre) uno degli aspetti più affascinanti dell’ebraismo?
È a questo genere di cose che pensavo compulsando – armato di un lapis ben temperato — La famiglia Karnovski, il capolavoro che Israel Joshua Singer scrisse a ridosso dalla morte prematura. L’occasione mi è stata offerta dalla nuova edizione Bompiani che si avvale della spigliata e bellissima traduzione di Elena Loewenthal. A dire il vero lo avevo letto anni fa, ma lasciatemi dire che questa rilettura, chissà perché – forse per il fatale incalzare degli anni – mi ha deliziato e tormentato in un modo del tutto inedito. Dico subito che era da un pezzo – da quando, con analogo slancio, divorai Verso la libertà di Arthur Schnitzler – che non m’imbattevo in un’opera narrativa che desse conto, con piglio altrettanto drammatico, dello scandalo legato all’inesorabile diluizione del sangue di Abramo.
A prima vista, infatti, La famiglia Karnovski è la storia di un’integrazione fallita. Il desiderio del patriarca David Karnovski, un colto ebreo galiziano, di abbracciare l’illuminismo giudaico trasferendo armi e bagagli a Berlino e consacrando la propria vita agli affari e alla conoscenza, trova un tragico contrappasso nelle idee e nel destino del nipote Jegor: figlio di un matrimonio misto, durante le purghe naziste, umiliato dai compagni di classe e dalle istituzioni scolastiche, sceglie di ripudiare il ramo ebraico di sé, ormai rinsecchito, abbracciando – ah, con quanto giudaico fervore! – la causa antisemita. Il punto di contatto tra questi due mondi inconciliabili – quello del nonno orgoglioso e austero e quello del nipote caratteriale e rabbioso – è Georg Karnovski, figlio di David e padre di Jegor.
È lui il primo a sentire quanto l’ebraismo, in Germania, la sua patria, gli stia stretto. È il primo ad avvertire il rifiuto per il mondo degli avi galiziani. Se la sua non è vergogna, certo le somiglia parecchio. «Cantava sì tutte le strofe di Frau Wirtin e beveva più birra di quanta non ne reggesse, ma non era spensierato perché non riusciva a liberarsi di un’ansia inconfessabile, la paura di lasciar trapelare la propria identità che aleggiava sopra il tavolaccio e tra i muri della stanza. Vigeva una sorta di omertà sulla propria discendenza, in presenza di cameriere e servitù, quasi fosse stata una tara, un’onta da tenere nascosta».
Immagino che il romanzo possa essere stato concepito da Singer come una requisitoria, un’invettiva contro l’assimilazionismo. La morale è presto detta: ogni ebreo abbastanza incauto da fidarsi dei Gentili, da mettere la propria vita nelle loro infide mani, è destinato alla dissoluzione di sé e, nei casi peggiori, al disastro e persino al martirio.
In realtà, non ho idea di quali fossero i propositi di Singer: se, nei primi anni Quaranta, quando l’entità dei massacri compiuti dai nazisti era inimmaginabile persino agli ebrei più pessimisti, fosse necessario fornire un resoconto dei guai provocati dalla degiudaizzazione ebraica. D’altronde, dato che un romanzo riuscito trova sempre il modo di emanciparsi dalle tesi del suo autore, non ho intenzione di stare qui a scervellarmi sulla faccenda. Tanto più che tutto si può dire di Singer tranne che sia ansioso di giudicare i suoi personaggi, e men che meno di manipolarli ad uso dei suoi principi. Tutt’altro: ne è avvinto al punto da lasciarsene dominare. Ogni eroe ha una voce così diversa dalle altre, e corrisponde a un tipo umano talmente specifico da impressionare anche il lettore sospettoso e navigato. Oltre ai Karnovski, c’è Solomon Buruk, l’ex ambulante che si è fatto da sé, con la sua parlantina, i suoi proverbi, la straordinaria capacità di vendere qualsiasi cosa a chiunque; c’è reb Efraim Walder, il libraio pio e erudito che ha la tentazione di vedere la luce del Signore nei suoi volumi rarissimi e nelle cose meravigliose che essi contengono; c’è Fritz Landau, medico infaticabile e pietoso, animato da un igienismo tanto irriducibile quanto irragionevole; c’è la di lui figlia, la bellissima Elsa Landau, talmente sensibile alla causa socialista da consacrarvisi anima e corpo. Eppoi c’è l’ebreo germanizzato, che per questo solo fatto si sente al sicuro dai nazisti, così come è certo di farcela Rudolf Moser, l’editore ripulito dalla conversione al cristianesimo, dai soldi e da frequentazioni illustri e altolocate.
Sono tutti così ingenui e creduloni! Singer li muove con mano svelta, suadente, amorosa. Per farlo si avvale di una sapienza tecnica impressionante capace di mescolare con spregiudicatezza il romanzo sociale di stampo balzachiano, la saga familiare alla Thomas Mann, l’opera modernista infarcita di idee generali e dialoghi eruditi, i feuilleton zeppi di coincidenze irrealistiche e di colpi di scena, il melodramma più melenso e patetico, e finanche il giallo così come lo avrebbe inteso Dostoevskij.
Solo approssimandomi alla fine del romanzo – quando i Karnovski trovano asilo nell’ebraico Upper West Side newyorchese e il dramma familiare si avvia all’epilogo tragico —, solo allora ho capito che l’assimilazione, così come la mette in scena Singer, così come la immagina, non va intesa come un germe che minaccia la salute dell’ebraismo, ma come una delle tante vitamine che da millenni la corroborano. È allora che mi è tornato alla memoria ciò che George Steiner ha scritto sull’identità ebraica, un passo che sottolineai anni fa e che da allora mi capita spesso di rileggere: «Il rapporto di un ebreo, uomo o donna che sia, con la propria identità può essere talmente opaco, così logorante e gravido di ambiguità storiche, sociali e psicologiche, che è proprio tutto questo a definire la condizione dell’ebraicità, se è ammissibile includere l’indecidibilità nella definizione».
Fermo restando che non è mai saggio trarre la morale da un romanzo, né fondarci sopra una qualche filosofia da strapazzo, sto qui a chiedermi se Singer, a pochi passi dalla tomba, mentre buona parte della famiglia in Europa rischia la pelle, non voglia celebrare l’ebraismo nella sua forma più dannatamente vile e autolesionista. Forse essere ebrei significa anche questo: provare a non esserlo e scoprire quanto ciò sia impossibile.