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 2021  maggio 30 Domenica calendario

La prossima guerra dell’Afghanistan

Nohomeid, senza speranza, dicono a Kabul. È l’espressione persiana adattata al dialetto dari più utilizzata da chi considera il ritiro del contingente internazionale dall’Afghanistan, previsto entro l’11 settembre 2021, un terribile errore. Anzi, una catastrofe. Si temono il ritorno dei talebani, il fanatismo religioso dell’Isis, i rigurgiti qaedisti, soprattutto l’insicurezza della guerriglia diffusa, l’impossibilità di viaggiare, la criminalità, l’incertezza del futuro. Il ripiombare in una tragedia che ci riguarda: i contingenti inviati dall’Italia arrivarono nel 2002 e in certi periodi sfiorarono i 5 mila uomini. Oggi ne sono rimasti meno di mille, concentrati a Herat, e il ritiro è iniziato.
Uno, due, tre. E quattro
La verità è che si prospetta ormai la quarta guerra afghana in epoca contemporanea. La prima generata dall’invasione sovietica nel 1979; la seconda scoppiata tra bande mujaheddin negli anni Novanta; la terza seguita all’invasione americana decisa da George W. Bush in risposta agli attentati qaedisti dell’11 settembre 2001. Nohomeid fotografa la delusione: lo stato d’animo che riflette la fine dei sogni di prosperità e pace nati al tempo della sconfitta talebana vent’anni fa, assieme alla sensazione via via più angosciante di essere in trappola. Lo testimoniano l’incremento degli attacchi terroristici, le notizie sempre più numerose di regioni dove le scuole femminili sono state chiuse, le donne relegate in casa, l’aumento delle diserzioni tra le forze di sicurezza governative, la riduzione del personale straniero nelle ambasciate, la fuga all’estero di chi (relativamente pochi) può permettersi un visto.
Ora il governo del presidente Ashraf Ghani controlla sostanzialmente solo le città maggiori. Secondo Tolo, il canale televisivo più popolare, quasi l’80 per cento del territorio nazionale è precipitato in una condizione di semi-anarchia e di questo ben oltre la metà risulta presidiato dai talebani. Le compagnie di sicurezza occidentali legate all’esercito americano che cooperano con le agenzie internazionali (tra cui Croce Rossa e organismi Onu) diffondono mappe aggiornate della situazione, da cui si evince che oggi quasi il 20 per cento dei 38 milioni di afghani è «sotto il pieno controllo talebano». Oltre a ciò, 88 distretti sarebbero in mano loro, 97 ancora legati al governo centrale, ma 213 «contesi»: una formula ambigua, visto che, dove prevale lo scontro, l’autorità pubblica latita e la guerriglia impera.
La ripresa del Grande Gioco
Una situazione che ripropone l’immagine tradizionale dell’Afghanistan vittima del Grande Gioco, teatro di sfide belliche infinite tra potenze straniere. Dalla competizione ottocentesca tra Russia e Gran Bretagna per il controllo della Via della seta, al confronto attuale tra Stati Uniti, Cina, India, Pakistan, Iran e Arabia Saudita. Al quale si sovrappongono gli immancabili scontri etnico-tribali tra signori della guerra radicati nei loro feudi locali. A Kabul pare che le antiche milizie pashtun, hazara, uzbeke, tagike e turcomanne stiano facendo a gara per rimettere in sesto le vecchie basi militari sulle colline che dominano l’area urbana. Lo scenario è destinato a ravvivare lo spettro della guerra civile che infuriò dal 1989, peggiorò nel 1992 e si calmò soltanto dopo l’irruzione talebana nella capitale nel settembre di quattro anni dopo. La sola popolazione di Kabul precipitò da oltre 2 milioni a meno di 500 mila abitanti. La città, devastata da bombardamenti indiscriminati, divenne l’ombra di sé stessa.
«Siamo messi peggio che dopo il ritiro sovietico del 1989», spiega Farid (chiede non appaia il suo cognome), alto funzionario sessantenne legato ai circoli di governo a Kabul. Allora, aggiunge, «almeno il nostro esercito legato al Partito comunista afghano era fortemente spronato a combattere le milizie islamiche dei mujaheddin e gli stessi talebani. C’era uno stimolo ideale, un progetto politico nazionale. Di questi tempi, invece, le nostre forze di sicurezza, addestrate e armate dagli americani assieme agli alleati della coalizione internazionale, sono motivate unicamente dal salario. Ognuno pensa per sé e per la propria famiglia. Manca il senso di missione, di fedeltà allo Stato e alla collettività. Al primo segno di vera guerra si sfalderanno. Il quarto conflitto afghano sarà una catastrofe. Vent’anni buttati via».
Anche Farid da tempo ormai ha mandato la famiglia a vivere a Istanbul. Gli fa eco Ahmad Rashid, il maggiore esperto pachistano della storia dei talebani: «Il ritiro del contingente a guida americana, frutto dei fallimentari accordi conclusi nel febbraio 2020 dall’amministrazione di Donald Trump con i talebani e perseguito da Joe Biden, suggella la sconfitta militare. Siamo all’eclissi di un’era. I nemici di ieri sono oggi ancora più forti».
La jihad antisovietica
Il rischio è uno scenario prossimo che condensi il peggio delle tre fasi belliche che si sono succedute dopo il colpo di Stato contro re Mohammed Zahir Shah nel 1973, la crescita del Partito comunista afghano e l’invasione sovietica nel decennio 1979-1989. «Fu un periodo dominato dalle dinamiche della guerra fredda. Tanto importante che il ritiro sovietico dall’Afghanistan divenne una sorta di Vietnam russo da annoverare tra le principali cause del crollo dell’Urss», sostiene Rashid. Leonid Brežnev decise di spedire 108 mila soldati. Una cifra non troppo diversa da quella a cui arrivarono i contingenti americani quando Obama li rafforzò una decina d’anni fa. Al leader sovietico parve che la presa di Kabul potesse compensare con poco costo i recenti successi Usa sullo scacchiere arabo-israeliano. Fu un errore madornale. I mujaheddin afghani lanciarono la jihad con il pieno sostegno della Cia, l’alleanza attiva del Pakistan, gli aiuti finanziari dell’Arabia Saudita. Mosca subì uno stillicidio drammatico di vittime tra i propri soldati nelle imboscate sulle montagne. Iniziò allora a bombardare massicciamente con l’aviazione. Washington replicò inviando oltre 500 missili portatili terra-aria Strela e Stinger, che facevano scempio degli elicotteri da trasporto-truppa russi.
Elemento nuovo fu l’apparire di volontari dai Paesi arabi al fianco dei mujaheddin. Divennero ottimi combattenti forgiati dalla durezza del territorio. In una decade arrivarono a superare la cifra di 35 mila uomini: si trasformarono nei nuclei militanti dell’«internazionale islamica», furono terreno di reclutamento della futura Al Qaeda di Osama Bin Laden e, più tardi, anche dell’Isis in Iraq e Siria. Adesso proprio i loro successori tornano a sfidare la stessa egemonia talebana.
Lo «Stato fallito» afghano, al pari di quelli in Africa, minaccia di diventare un’ottima base operativa per il Califfato del futuro. Poco più di trent’anni fa i suoi predecessori costrinsero Mikhail Gorbaciov a ordinare il «ritorno a casa». Alla fine, il bilancio delle vittime fu immane: più di 600 mila civili uccisi (alcune fonti ne segnalano due milioni), oltre 20 mila soldati sovietici e forse 90 mila mujaheddin. Il Paese, ormai totalmente privo di infrastrutture, gli ospedali bombardati, l’economia azzerata, fu ridotto allo stremo con 5 milioni di profughi fuggiti all’estero (specie nei grandi campi di tende in Pakistan e Iran), oltre a due milioni di sfollati interni.
Il fantasma di Najibullah
Il secondo conflitto fu contraddistinto dall’anarchia interna, che aprì la strada alla teocrazia talebana e all’insediamento di Al Qaeda. Non è un caso che adesso le possibili conseguenze del ritiro voluto dagli americani siano lette attraverso le lenti dei «tragici anni Novanta» seguiti a quello sovietico, come li ricordano con apprensione le generazioni a partire dai quarantenni. Nonostante Ghani non perda occasione per rassicurare, promettendo che «il nostro esercito sarà in grado di tenere botta», la verità è che ben pochi si fanno illusioni. I soldati e poliziotti afghani uccisi dal 2001 sfiorano ormai la cifra di 65 mila e il dato si aggrava ogni settimana. Tornano le immagini di Mohammad Najibullah, presidente durante l’ultimo periodo della presenza sovietica e rimasto al suo posto sino alla presa di Kabul da parte delle milizie mujaheddin nel 1992. I commando talebani lo catturarono all’interno del compound dell’Onu il pomeriggio del 26 settembre 1996. Fu subito torturato, evirato, quindi il suo cadavere venne appeso di fronte al palazzo presidenziale con mazzette di banconote infilate in bocca e nei pantaloni insanguinati. Un memento terribile degli incubi che assillano adesso i dirigenti legati a Ghani.