La Lettura, 30 maggio 2021
I conflitti delle materie prime
La casa di produzione Relic Entertainment ha annunciato che il prossimo autunno sarà pubblicato un nuovo capitolo, il quarto, di una saga videoludica di successo: Age of Empires. Nato nel 1997, è un gioco per computer che ha fatto scuola nel campo della strategia in tempo reale. La meccanica è semplice: ogni giocatore controlla una civiltà, ne sviluppa i diversi aspetti grazie allo sfruttamento delle risorse naturali e tenta di portarla alla vittoria sbaragliando gli avversari con la potenza delle sue unità militari. Come ogni appassionato della saga sa bene, le partite possono prolungarsi per diverse ore, soprattutto se nessun partecipante riesce, con un Blitzkrieg, a ridurre in cenere le civiltà contendenti nelle prime fasi di gioco. Questi stalli si risolvono nel tempo per due motivi: le risorse e lo spazio a disposizione sulla mappa si esauriscono. A quel punto non restano alternative: se il giocatore vuole vincere, deve attaccare e concludere la partita sul campo di battaglia.
Certamente il mondo reale non è semplice quanto un gioco per computer: le società umane e la dipendenza che le lega alle risorse sfruttabili del pianeta sono infinitamente più complesse di quanto possa essere una partita di Age of Empires. Tuttavia ci si potrebbe chiedere se oggi non ci stiamo avvicinando in modo inesorabile alla fase finale della nostra «partita», agli scontri dettati dalla penuria di materie prime e dalla mancanza di spazio in un mondo sempre più affollato. La domanda è lecita, giustificata dalla frequenza con cui nel nostro presente vengono impiegate espressioni come «esaurimento delle risorse» o «guerre energetiche» per descrivere situazioni di crisi geopolitica o sociale e le cause che le hanno scatenate.
La storia insegna che muovere guerra per ottenere il controllo di una risorsa non è una trovata recente. Gli esseri umani infatti lo fanno da alcune migliaia di anni. Un libro, pubblicato da Add nella traduzione di Sara Prencipe ed Enrico Pandiani, lo mostra bene. In Altre storie straordinarie delle materie prime, seguito di un fortunato primo volume del 2019, l’economista Alessandro Giraudo analizza un gran numero di risorse che l’uomo ha sfruttato nel corso della sua storia nei modi più impensabili. Pepe, talco, grafite, amianto, persino il guano: tutto pare avere avuto un suo momento d’oro. E tutto, prima o poi, sembra essere stato conquistato o difeso con le armi. Spesso è stata la stessa materia prima a foraggiare e allungare conflitti che altrimenti si sarebbero risolti più rapidamente.
È il caso della guerra di Secessione americana, durata così a lungo grazie anche al valore del cotone coltivato dagli schiavi nelle piantagioni del Sud. Venduto agli europei, permise agli Stati confederati, decisamente più poveri e meno industrializzati rispetto a quelli dell’Unione, di sostenere le spese di una guerra lunga e logorante. Altre risorse fecero grandi alcuni imperi: Roma prima e Venezia poi divennero potenze marittime servendosi di piante come canapa e sparto per la produzione del sartiame impiegato sulle navi.
Allo stesso modo le spezie, fra cui i richiestissimi chiodi di garofano delle Molucche e il tè prodotto nei possedimenti britannici, plasmarono le mappe del mondo coloniale e furono il casus belli di numerosi conflitti armati.
Di primo acchito sembrerebbe quindi che il passare dei secoli abbia cambiato ben poco, in quanto le materie prime oggetto del contendere non sono sempre le stesse, ma il modus operandi resta a grandi linee il medesimo. Grafici e cartine dedicati ai conflitti oggi in corso infatti mostrano scontri armati combattuti per il controllo delle risorse che seguono un copione già scritto.
Al petrolio, causa più o meno dichiarata di numerose guerre nel corso del Novecento, si è affiancato ad esempio il coltan, del quale i più ignorano perfino l’esistenza, figurarsi gli utilizzi. Eppure sta nelle tasche di tutti noi, all’interno dei condensatori di ogni smartphone. Formato dall’aggregazione di due minerali – la columbite e la tantalite – è materia prima di radicale importanza in telefonia, informatica e robotica. La provincia congolese di Kivu Nord è ricchissima di coltan, motivo per cui la Repubblica democratica del Congo è diventata, in tempi recenti, un eldorado minerario. La presenza di una risorsa così richiesta rende ancora più tormentata una regione che negli ultimi decenni ha vissuto una perenne guerra a bassa intensità assai sanguinosa, nella quale bande di guerriglieri combattono anche per ottenere il controllo dei giacimenti, fondamentali per finanziare le loro attività. Più a nord-ovest la situazione non cambia molto: in Niger e Mali, fra i Paesi più instabili del continente, contingenti militari occidentali, soprattutto francesi, vigilano sui ricchi giacimenti di uranio, minacciati da vicino dalle azioni dei gruppi terroristici del Sahel.
Accanto a questi scontri, che si potrebbero definire tradizionali, sono però sempre più frequenti situazioni conflittuali di altro genere, sintomi di un mondo in rapida trasformazione. Il recente litigio fra Francia e Gran Bretagna per la pesca intorno all’isola di Jersey ne è un esempio lampante. Come per l’arcipelago delle Senkaku/Diaoyu, conteso fra Giappone, Cina e Taiwan, e per gli arcipelaghi nel Mare Cinese Meridionale, che il Paese di Xi Jinping vorrebbe reclamare come propri senza che altre nazioni interferiscano, si tratta di dispute legate alle risorse nascoste sotto le onde. Diritti di pesca e controllo di giacimenti di idrocarburi sono infatti le vere cause che muovono i diplomatici e, sempre più spesso, flottiglie di navi militari. Le dispute attorno a risorse difficili da raggiungere e poco economiche da sfruttare sono il segnale di un mondo che sta iniziando a grattare il proverbiale fondo del barile. La «caccia» si sta progressivamente spostando in aree prima impensabili, come le distese d’acqua a nord del Circolo polare Artico. Sempre più blu perché libere dal ghiaccio a causa del riscaldamento globale, sono lo scenario di una nuova epoca di sfruttamento e militarizzazione, segnale, questo, che nuovi fronti di attrito fra le potenze mondiali si sono aperti laddove prima transitavano soltanto immense rompighiaccio.
A giudicare da queste evidenze, pare che stiamo davvero assistendo alle prime avvisaglie di un finale di partita à la Age of Empires, in cui le materie prime scarseggiano e l’impegno, anche armato, per non soccombere diventa una scelta frequente se non inevitabile. Ma di fronte a questi scenari è bene ricordare che le risorse, ovviamente, non finiranno mai in senso assoluto. È molto probabile invece che a essere più determinante nel minare la stabilità di porzioni di mondo sarà il peggioramento delle condizioni di vita degli esseri umani, che aumenta al calare della disponibilità di risorse, soprattutto quelle basilari come acqua, cibo, terre coltivabili e spazio vivibile.
In questo senso, alcune aree calde del mondo odierno rappresentano situazioni che sarebbe opportuno evitare di moltiplicare in futuro. La Striscia di Gaza è uno di questi luoghi. Sovrappopolata e spesso a corto di forniture di base, lamenta persino la mancanza dello spazio per gestire le tonnellate di rifiuti che ogni giorno i suoi abitanti producono. Il riacutizzarsi periodico del conflitto in questa regione è anche un problema demografico, di risorse e di spazio, e lo sarà sempre di più, ogni anno che passa.