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 2021  maggio 30 Domenica calendario

Noi, ragazzi del ’46

«Fu una giornata allegra, di grande soddisfazione. Andai a votare con mio marito Franco in un seggio dalle parti dell’Aventino. C’erano file piuttosto lunghe. Scegliere la Repubblica voleva dire scegliere la democrazia e i diritti individuali. C’era stato un legame stretto tra la casa reale e il fascismo. Inoltre, era la prima volta che le donne votavano a livello nazionale, e quindi anch’io!». Ricorda così il referendum istituzionale del 2 giugno 1946 Marisa Rodano, 100 anni, nata a Roma il 21 gennaio 1921, attiva nella Resistenza, tra le fondatrici dell’Unione donne italiane, poi deputata, senatrice ed europarlamentare del Partito comunista. 
A 75 anni da quel voto, con l’aiuto di due residenze lombarde per anziani (Golgi Redaelli; Istituti Milanesi Martinitt e Stelline e Pio Albergo Trivulzio), grazie a figli, nipoti, segretarie, «la Lettura» ha raggiunto sei testimoni. Nella ricerca sono state coinvolte associazioni tra loro distanti, anche monarchiche. Hanno fornito contatti Anpi, Aned e Anrp (Associazioni nazionali, rispettivamente, dei partigiani d’Italia; ex deportati nei campi nazisti; reduci dalla prigionia, dall’internamento e dalla guerra di Liberazione).

Marisa Rodano è stata una protagonista di quella stagione. Alla Resistenza partecipò nel Movimento dei cattolici comunisti e nei Gruppi di difesa della donna. «Già al liceo – racconta – facevo attività antifascista. All’università fui arrestata. Sono stata a Regina Coeli poi, quando sono uscita, mi sono impegnata nella lotta contro l’occupazione nazista: distribuivamo volantini, facevamo scritte sui muri, mettevamo i chiodi sulle strade dove passavano i veicoli tedeschi...». Roma fu liberata il 4 giugno 1944. A settembre nacque l’Unione donne italiane, della quale in seguito Rodano sarebbe stata presidente. «Nel congresso del 1945 – ricostruisce – vi confluirono le formazioni femminili che avevano partecipato alla lotta di Liberazione, che avevano aiutato gli Alleati e svolto attività di collegamento tra le formazioni partigiane». 
Già nei manifesti della Resistenza, ricorda, «chiedevamo il diritto di votare ed essere elette. Qualcuna aveva già partecipato alle amministrative di marzo-aprile 1946, ma il 2 giugno era la prima volta alle politiche e ovviamente per un referendum così importante. Facemmo campagna per far partecipare le donne e scegliere la Repubblica». Alle ragazze di oggi «vorrei dire di non considerare “normali” i diritti di cui godono: sono costati lavoro, lotte, fatica. E di non pensarsi individualmente ma nella società, di occuparsi degli altri e costruire una realtà in cui tutti possano vivere meglio». 
Tra chi scelse la Repubblica, ci fu anche Bruno Segre, 102 anni, di Torino, nato il 4 settembre 1918, partigiano nella I divisione alpina Giustizia e Libertà, nel cuneese, poi avvocato e giornalista, fondatore della testata indipendente «L’incontro». Del referendum evoca la festa: «La folla in piazza Castello: un tripudio di canti e bandiere senza “la macchia”, come Mazzini chiamava lo stemma dei Savoia nel tricolore. Finalmente la Repubblica, coronamento della Resistenza. Ancora oggi il mio cuore si allarga quando espongo la bandiera sul terrazzino». 
Di padre ebreo, dal 1938 Segre subì le leggi razziali fasciste. «Sotto pseudonimo ne scrissi contro sulla rivista “L’igiene e la vita”. Fu subito chiusa». Poté finire l’università e laurearsi in legge con Einaudi, ma non fare pratica giudiziaria. Nel 1942 fu arrestato per «disfattismo»: «Con un gessetto aggiungevo una “o” sui muri alla scritta “Viva il re”». In cella tornò nel ’44, dopo che un portasigarette lo salvò miracolosamente da un proiettile fascista. Fu rinchiuso nella caserma di via Asti e nelle carceri Le Nuove. Uscì pagando un funzionario. Poi, la Resistenza. 
Dopo la guerra, nei giorni prima del referendum, gli capitò d’imbattersi proprio in Umberto II, il «re di maggio», in piazza Castello: «Era tanto attraente quanto intellettualmente debole. Un po’ brutalmente gli chiesi: “Voterà per la Repubblica o la Monarchia?”. Mi guardò trasecolato e si allontanò». Di Umberto II, prosegue Segre, «ricordo la visita deferente a Hitler; il comando dell’armata che aggredì nel 1940 la Francia sconfitta; l’obbedienza alla madre, che gli proibiva di farsi paracadutare in Piemonte, dove nel Biellese operava la brigata monarchica “Cavour”; la sottomissione al padre; il giro a Torino distribuendo il titolo di “cavaliere del regno” per ottenere consensi». 
In quella stessa città visse e fu partigiano nei Giovani Liberali Gastone Cottino, 96 anni, nato l’8 febbraio 1925, oggi professore emerito di Diritto commerciale all’Università di Torino e accademico dei Lincei. «Quello del referendum – ricorda – fu un periodo di lotta politica incandescente. Dal mio punto di vista, per costruire un mondo migliore il primo nodo era proprio la forma istituzionale». Cottino tenne comizi, fece campagna per la Repubblica, ma non potè votare. «Avevo compiuto 21 anni l’8 febbraio 1946 ma la legge, che sarebbe stato lo strumento della mia vita, mi trattò male: aveva stabilito che bisognava avere 21 anni al 31 dicembre 1945. Feci ricorso: il mio primo exploit, fallimentare, da giurista». 
Un «rospo», quel non voto, che gli è sempre rimasto in gola. Ma parla comunque di «una fase straordinaria, in cui tornarono a scaldarsi spiriti che già tendevano a sopirsi». Dopo la caduta del governo Parri nel dicembre 1945, «si avviò il processo di restaurazione del vecchio Stato prefascista, liberale sì, ma non democratico. Inoltre, tra le gerarchie ecclesiastiche c’era il timore di una Repubblica rossa. Noi che avevamo fatto la Resistenza capimmo che era in gioco il futuro. Conquistammo solo allora una coscienza politica vera». La scelta della lotta partigiana «era stata più istintiva. Eravamo nati nel fascismo. Tutto ciò che avevamo appreso a scuola era il culto del capo: svuotamento di cervelli. Poi nel novembre 1943 il primo dei bandi Graziani impose il reclutamento nell’esercito della Repubblica sociale (Rsi) ai nati nel 1923, ’24, ’25; nel 1944 fu annunciata la pena di morte per chi non si presentava: bisognava scegliere da che parte stare». Cottino combatté il nazifascismo in città, a Torino. 
Ma l’Italia non fu tutta uguale: «Il Sud non venne coinvolto nella Resistenza, per gran parte non fu toccato dall’occupazione nazista. Inoltre nel Meridione si era già diffusa un’ideologia come il “qualunquismo” di Giannini. Ecco perché l’esito del voto fu diverso tra le due zone». 
A Serradifalco (Caltanissetta), oggi circa 5 mila e 700 abitanti, viveva e vive tuttora Fania Calabrese, nata il 23 novembre 1919. Nel 1946 aveva un negozio di colori per interni. «I ricordi non sono nitidi – premette —, ma la mia famiglia guardava con simpatia a Casa Savoia. Non escludo di aver votato per la Monarchia». All’epoca «non c’era l’informazione di oggi, i mezzi di comunicazione erano limitati, così come la propaganda elettorale. Votai ma senza davvero capire l’importanza di quel giorno». In seguito «ho visto tutti i presidenti della Repubblica e di ognuno ho apprezzato gesti, parole, iniziative, soprattutto di Sandro Pertini. Oggi non voterei per la Monarchia». 

Luogo e condizione di nascita determinarono una maggiore o minore consapevolezza, scelte e destini. Antonietta Luigia Porro, 99 anni, sarta per quaranta, poi pranoterapeuta, nacque il 4 settembre 1921 a Milano, nel Settentrione che votò la Repubblica. E riferisce di averlo fatto anche lei. La incontriamo, nel rispetto del protocollo anti Covid, al Pio Albergo Trivulzio. «Da quando Mussolini si mise con i tedeschi fu un disastro!», racconta. E ricorda la detenzione del fratello Luigi nei lager nazisti, «prima a Mauthausen poi a Gusen I e II», arrestato nel tentativo di fuggire in Svizzera, per sottrarsi alla chiamata dell’esercito della Rsi. «Per quasi due anni non si seppe nulla. Gli Alleati lo trovarono vicino a una buca dove c’era un cavallo morto: affamato cercava di mangiare quella carne».
Otto lager, in Germania e in Polonia, attraversò anche Michele Montagano, nato a Casacalenda (Campobasso), il 27 ottobre 1921. Sotto le armi a 19 anni, divenne ufficiale del Regio Esercito e fu tra i militari che dissero «no» al nazifascismo. «L’8 settembre 1943 – racconta – ero in Slovenia. Cercai di riportare militari e civili italiani nel nostro Paese ma, arrivati a Gradisca d’Isonzo, trovammo i tedeschi. Mi chiesero se volevo collaborare. Rifiutai, e fui deportato». Durante la prigionia Montagano divenne uno dei «44 eroi di Unterlüss», ufficiali che nel febbraio 1944 si ribellarono ai nazisti offrendosi di sostituire 21 compagni scelti per la fucilazione. Non furono ammazzati perché servivano braccia, ma trasferiti appunto nel lager di Unterlüss, tra i più duri. «Ci comportammo semplicemente da uomini e militari», dice il sopravvissuto. «Da ragazzo fui fascista, ma nell’esercito conobbi gente da tutta Italia: la mente si aprì». Nei venti mesi da prigioniero, incontrò in un lager tra Polonia e Russia anche suo padre, capitano, che invece aveva aderito alla Rsi e si apprestava a tornare in Italia: «Lui era più anziano, aveva già combattuto nella Prima guerra mondiale. Non ce l’avrebbe fatta a resistere».
Tornato a sua volta nel Molise, Michele emigrò poco dopo in cerca di lavoro. «Ecco perché il 2 giugno votai ad Alessandria: scelsi la Repubblica». Da soldato, racconta, «avevo giurato fedeltà alla monarchia, ma poco prima del referendum, ci dissero che eravamo liberi». Al Museo degli Internati militari (Imi) di Roma, ha affidato un biglietto scritto alla madre al momento della deportazione: «Sono in mano ai tedeschi. La mia coscienza d’italiano è integra. Viva l’Italia».