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 2021  maggio 30 Domenica calendario

Incertezze e tensioni, poi l’addio di Umberto II

Con la guerra ancora in atto e pochi giorni dopo l’uscita di scena di Vittorio Emanuele III, un accordo tra il principe Umberto, luogotenente del Regno, e il Comitato di liberazione nazionale condusse al decreto del 25 giugno 1944. Stabiliva che dopo la liberazione «le forme istituzionali saranno scelte dal popolo italiano che a tal fine eleggerà, a suffragio universale diretto e segreto, una Assemblea Costituente»; all’inizio del 1945 un nuovo decreto confermò il voto alle donne. 
La nascita di un ministero per la Costituente non placò tuttavia i contrasti sulle modalità di scelta dell’assetto istituzionale. I sostenitori della Monarchia, preoccupati della prevalenza dei partiti ostili ai Savoia nella futura Costituente, optavano per il referendum, mentre le sinistre preferivano affidare la decisione all’Assemblea. Alla fine prevalse la soluzione referendaria, anche grazie alla posizione favorevole del leader della Dc e presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, intenzionato a evitare il contrasto tra il partito, prevalentemente repubblicano, e la consistente parte dell’elettorato cattolico favorevole alla Monarchia.
A marzo del 1946 nuovi decreti convocarono i comizi elettorali il 2 giugno per eleggere i deputati. Contestualmente all’elezione dell’Assemblea, il popolo era «chiamato a decidere mediante referendum sulla forma istituzionale dello Stato (Repubblica o Monarchia)». Si decise anche che i 556 deputati dell’Assemblea, da eleggersi con metodo proporzionale in 32 collegi, avrebbero avuto solo il compito di redigere il testo costituzionale, mentre i poteri legislativi sarebbero rimasti in capo all’esecutivo. Il ritorno alle urne dell’Italia, a 22 anni dall’ultima elezione pluralista, fu uno dei più lenti tra i Paesi democratici, anche perché si avvertiva l’intenzione di far raffreddare le tensioni della guerra civile. 
A questo scopo il voto del 2 giugno venne preceduto da elezioni amministrative, le prime a suffragio universale, che si tennero dal 10 marzo al 7 aprile in 5.722 comuni (su 7.294) e videro la netta supremazia dei tre grandi partiti di massa, Dc, Psi e Pci. Tale esito lasciava presagire la fine della Monarchia, tanto più che un referendum tra gli iscritti Dc aveva visto prevalere la componente repubblicana. Ma i dubbi rimanevano: «Come voteranno – annotò Paolo Emilio Taviani – i milioni di democristiani nel Mezzogiorno?». Timori legittimi considerando che la decisione del sovrano di abdicare il 9 maggio a favore del figlio, che divenne così re Umberto II, intendeva agevolare la causa monarchica. 
La campagna elettorale, relativamente tranquilla, si concentrò prevalentemente sul tema istituzionale, lasciando sullo sfondo le questioni costituzionali. L’affluenza alle urne (89,1%) fu altissima. Il sistema proporzionale favorì la presentazione di ben 51 liste di cui però 36 non ottennero seggi. Su poco più di 28 milioni di elettori, a votare furono quasi 25 milioni (circa 13 milioni di donne e 12 di uomini) che assegnarono alla Dc 207 seggi, 115 al Psiup e 104 al Pci. L’Unione democratica, rappresentativa della tradizione liberale, ne ottenne 41, l’Uomo Qualunque 30, il Partito repubblicano 23, il Partito d’Azione 7. Le donne elette furono 21. Oltre il 75% degli eletti apparteneva a forze politiche che prima del ventennio fascista si sarebbero considerate antisistema.
Più sofferto e sentito si rivelò il verdetto sulla questione istituzionale che non a caso ebbe quasi mezzo milione di voti validi in più rispetto a quelli per i costituenti. Il 5 giugno il ministro dell’Interno Giuseppe Romita annunciò la vittoria repubblicana, ma venne contestato dai monarchici per i dati lacunosi. Alcuni giuristi presentarono ricorso poiché il decreto con cui era stato indetto il referendum prevedeva l’attribuzione della vittoria sulla base non della maggioranza dei voti validi, ma su quella dei votanti. L’esito rimase dunque incerto per diversi giorni e, in mancanza di dati sulle schede bianche e nulle, il 10 giugno la Corte di Cassazione si limitò a comunicare i risultati, rinviando al 18 la proclamazione dei vincitori. Il governo mise le mani avanti annunciando che per la Repubblica avevano votato 12.718.641 elettori (54,3%), per la Monarchia 10.718.502 (45,7%), ma Umberto, facendosi interprete delle diffuse voci di brogli, rifiutò di accettare il risultato senza l’avallo della Cassazione.

Il mancato riconoscimento non fermò De Gasperi che, sostenuto dalla neutralità degli Alleati e pressato dalla mobilitazione della piazza repubblicana, assunse il 13 giugno le funzioni (non i poteri) di capo provvisorio dello Stato. Lo stallo stava alimentando un clima da guerra civile: a Napoli dal 6 all’11 giugno ci furono violenti scontri, con nove morti e più di 100 feriti tra i manifestanti monarchici. A quel punto il sovrano si arrese. Il 13 partì per l’esilio in Portogallo: «nella speranza di scongiurare nuovi lutti e nuovi dolori» e «non volendo opporre la forza al sopruso, né rendermi complice dell’illegalità che il governo ha commesso». Era stato re per poco più di un mese; sarebbe passato alla storia come «re di maggio». De Gasperi contestò il «fazioso e mendace proclama».
Il 18 giugno la Cassazione decretò la vittoria della Repubblica: il conteggio dei voti non validi (1.509.735) confermava la regolarità della maggioranza anche in relazione al numero dei votanti. La scelta repubblicana aveva prevalso al nord (64,8%) e al centro (63,5%), mentre quella monarchica al sud (67,4%) e nelle isole (64%). Il 25 giugno l’Assemblea Costituente elesse il socialista Giuseppe Saragat a presidente. Tre giorni dopo il liberale e monarchico Enrico De Nicola divenne capo provvisorio dello Stato.