La Lettura, 30 maggio 2021
Il debito populista secondo Mario Monti
Ammette che in questa fase la presenza e il ruolo di uno «Stato-mamma» siano inevitabili: lo impongono le ferite sociali ed economiche provocate dal Covid. Su quell’altare sono stati di fatto sospesi i vincoli e le logiche del Trattato di Maastricht. E lui, indicato a lungo come uno dei simboli del rigore finanziario, conviene che qualunque pretesa di austerità oggi sarebbe non solo impopolare ma rischiosa. La stessa Europa ha abbracciato da tempo, e da un anno e mezzo accentuato, politiche che puntano sull’espansione della spesa pubblica per aiutare un continente segnato da una crisi aggravata dalla pandemia. Ma il senatore a vita Mario Monti, ex premier ed ex commissario Ue, dal 2020 presidente della Commissione paneuropea per la salute e lo sviluppo sostenibile, invita a guardare l’orizzonte di qui a due anni.
Addita, in quest’intervista a «la Lettura», i rischi di un debito pubblico insostenibile. Semina qualche dubbio sull’effetto che può avere in Italia il concetto di «debito buono», coniato dal premier Mario Draghi. Invita a «considerare pacatamente anche i temi di una moderata imposta patrimoniale e di un’imposta di successione che cessi di essere la più bassa tra i Paesi europei, riducendo invece la tassazione che colpisce il lavoro, in capo sia all’impresa sia al lavoratore». E prevede che l’Europa riconciliatasi con l’Italia fornendole aiuti finanziari massicci, prima o poi tornerà a fissare regole e a chiederne il rispetto: a cominciare dai fondi del Piano per la ripresa (Pnrr). «Dentro il guanto vellutato dei finanziamenti c’è una componente di ferro», avverte. Sottovalutarlo significherebbe sprecare un’occasione unica. Anche se Monti vede istituzioni italiane più solide di quanto non si pensi. Ed evoca i capi dello Stato come garanti della loro continuità.
A torto o a ragione, molti tendono a vedere in lei uno dei protagonisti della stagione della cosiddetta austerità e del rigore economico, trascurando il contesto di quegli anni. Con la pandemia siamo entrati in una fase di politica espansiva, di spesa pubblica e di accumulazione del debito. Come la vive? Preoccupato o convinto che non si possa fare altro?
«La vivo sapendo che l’austerità non piace a nessuno: né a chi la deve imporre né a chi la subisce. Ma a volte è la medicina necessaria per evitare un male maggiore: nel caso dell’Italia nel 2011-2012, il default dello Stato».
E oggi non esiste un rischio del genere?
«No. Nessuno oggi in Europa auspicherebbe politiche monetarie e di bilancio così restrittive. Basta pensare a Mario Draghi, che dal 2013 in poi è stato il protagonista di una politica monetaria europea molto espansiva e che oggi in Italia gestisce una politica di disavanzi pubblici decisamente elevati a motivo della pandemia. Eppure nella fase precedente (2011-2012) lo stesso Draghi, da nuovo presidente della Bce, aveva ritenuto necessario spingere l’Europa e in particolare l’Italia a un’austerità ancora maggiore di quella che era in corso. Tutti ricordano la lettera Trichet-Draghi dell’agosto 2011 che chiedeva al governo Berlusconi di portare il bilancio in pareggio già nel 2013, un anno prima degli altri Paesi, e di introdurre nella Costituzione un vincolo di bilancio più stringente. Così come, a livello europeo, fu Mario Draghi, assecondato da Angela Merkel e dai Paesi nordici, a volere il Fiscal Compact».
Sta dicendo che nessuno avrebbe potuto fare diversamente da lei, Draghi compreso?
«Il plus di austerità voluto da Draghi e da altri in quella fase non ha certo agevolato il compito del nostro governo. Ma non critico nessuno. Allora erano diverse da oggi sia la situazione oggettiva sia la visione prevalente in Europa. Basta che non si dica, come è stato spesso detto in Italia per ignoranza dei fatti o opportunismo politico, che il nostro governo avrebbe introdotto la disciplina di bilancio e alcune riforme per una sorta di sadismo verso il popolo italiano».
Ad esempio, come situazione oggettiva, la pandemia. Ma, a suo avviso, è stata l’alibi per cambiare approccio di politica economica o nella pancia dell’Occidente e dell’Europa il cambio di strategia era in incubazione da tempo?
«Dal 2013 l’abbandono di politiche monetarie restrittive era cominciato sia in Europa sia negli Stati Uniti, così come il passaggio a politiche di bilancio più espansive. Purtroppo, mentre nella fase del governo Renzi (2014-2016) le condizioni esterne erano favorevolissime, invece di approfittarne per andare avanti con le riforme per la crescita, si passò a una fase puramente ridistributiva. Ricordiamoci gli 80 euro di bonus, ai quali ha fatto seguito nel 2018 una fase analoga con il governo Conte I. A quel bonus vennero aggiunti quota 100 sulle pensioni e reddito di cittadinanza. Scelte che invece di fare crescere la competitività hanno puntato solo a fare crescere i voti. Poi è scoppiata la pandemia del coronavirus. Gli Stati hanno dovuto imporre il lockdown. Questo ha creato una grave situazione economica, alla quale si è reagito con un ulteriore ampliamento dell’offerta di moneta e l’incoraggiamento a maggiori disavanzi. Aggiungere a questo l’austerità avrebbe significato sommare alla crisi da pandemia una forte recessione».
Nella sua descrizione di quanto accade c’è una vittima collaterale: il Trattato di Maastricht. Non stiamo assistendo a un superamento o comunque uno smantellamento dei principi di quel Trattato?
«È un’osservazione esatta. Si tratta di una sospensione generale dei vincoli europei. Il primo vincolo a essere sospeso è stato quello sul disavanzo e sul debito pubblico. Il secondo ha riguardato le regole sugli aiuti di Stato alle imprese: gli Stati hanno potuto finanziare largamente le loro imprese in difficoltà».
Lo Stato-mamma e l’Europa-mamma, fino a pochi anni fa vista come matrigna.
«Ma lo Stato-mamma, almeno in Italia, c’è sempre stato. Ora è più accentuato per via del coronavirus».
Ma quanto può durare la presenza dello Stato nell’economia a questi livelli? Lo Stato-mamma e un’Ue materna che danno e non chiedono soldi non creano dipendenza? E, soprattutto, a che cosa possono portare?
«Sarà cruciale la differenza nel modo di vivere questa fase. I Paesi che hanno sempre avuto chiara una divisione tra ruolo del mercato e dello Stato, che seguono il principio dell’economia sociale di mercato, ritengono che questo modello europeo sia stato giustamente sospeso in circostanze eccezionali. Ma nazioni come la Germania, per non parlare dell’Olanda e di altre piccole nazioni del Nord Europa, vivono questa fase come un’eccezione giustificata solo dalle circostanze. Osservando l’Italia e la Francia, ho invece l’impressione che gran parte dell’opinione pubblica italiana e francese abbia vissuto il cambio di approccio come una rivincita, un’ammissione di colpa da parte dell’Europa. Molti hanno detto: ecco, finalmente l’Ue ha riconosciuto il suo peccato originale, l’annettere importanza alla disciplina di bilancio».
Il suo ragionamento porta a chiedersi se abbiano ragione quanti sostengono che alla fine si dovrà cancellare il debito da Covid. Siamo a un rapporto debito-Pil intorno al 160 per cento. Se va bene, nel 2024 sarà al 152,7. Può l’Italia fare dimenticare con il debito da Covid l’altro, quello storico?
«No, non ci riuscirà. E poi, cancellare i debiti che vorrebbe dire? Gran parte del debito pubblico è in mano a italiani. Gli italiani dovrebbero decidere di impoverirsi da soli. Allora sarebbe meglio, nell’ambito di una complessiva riforma fiscale, considerare pacatamente anche i temi di una moderata imposta patrimoniale e di un’imposta di successione che cessi di essere la più bassa tra i Paesi europei, riducendo invece la tassazione che colpisce il lavoro, in capo sia all’impresa che al lavoratore».
Dunque, è un’illusione pensare di sfuggire alla lunga alla trappola del nostro debito pubblico.
«Possiamo rinviare il momento della verità: dipende da quanti calci diamo alla lattina per tirarla più avanti, da quanta polvere nascondiamo sotto il tappeto. Ma questa è roba che si scaricherà sui redditi e il potere d’acquisto di figli e nipoti».
Lei non condivide l’idea del «debito buono» che Draghi teorizza per promuovere la crescita egli investimenti?
«Da quando è nato il Patto di stabilità nel 1997, l’ho criticato perché non distingue abbastanza tra il disavanzo corrente e quello per investimenti, che dà luogo a maggiore crescita nel futuro. Anche le banche centrali hanno a lungo trascurato questa distinzione, preoccupate dal debito pubblico in quanto tale e dalla sua pressione sui mercati finanziari. Ben venga dunque l’accento che il presidente Draghi, nel suo discorso di Rimini dell’anno scorso, ha posto su questa differenza. La mia unica preoccupazione è che introducendo nel dibattito italiano la definizione di disavanzo e debito “buono”, che richiama una categoria etica, la politica tenda a considerare “buono” tutto il disavanzo o debito. Per esempio, ormai in Parlamento si considera “buono”, anzi “sacrosanto”, ogni scostamento di bilancio approvato per dare ristori a chi è stato penalizzato dai lockdown. E siccome l’atto del ristorare è buono, automaticamente si pensa che sia cosa buona che questa voce sia tutta finanziata in disavanzo. Si dimentica che in questo modo non sono gli italiani fortunati di oggi, quelli non penalizzati dai lockdown, a fare l’atto buono di ristorare, almeno in parte con tasse, le perdite subite da altri. No, noi cittadini e i politici consideriamo cosa buona e giusta che a pagare quei ristori non siamo in realtà noi, italiani di oggi; bensì i nostri figli e nipoti, che si troveranno le spalle gravate da un debito in più, che noi oggi abbiamo considerato “buono”. In definitiva, credo che Draghi e io su questo tema pensiamo la stessa cosa ma, forse, io negli anni ho acquisito maggiore familiarità con gli slittamenti verbali in cui la politica italiana indulge per gravare il più possibile lo Stato, proclamando al tempo stesso la bontà delle proprie intenzioni. Nel Parlamento italiano, Max Weber avrebbe riscontrato abbondanza di “etica delle intenzioni” e carenza di “etica della responsabilità”. In questo, forse, sta una radice populista della politica italiana, certo preesistente all’affermarsi negli ultimi dieci anni del populismo esplicito e rivendicato. La convinzione che noi cittadini e lo Stato siamo due mondi separati; la visione delle imposte come sopruso in sé, visione alla quale ormai non osano opporsi neppure quei politici che non la condividono; la convinzione che la spesa pubblica in disavanzo sia l’ingrediente primo della crescita; e il livello del debito pubblico, sono facce diverse di uno stesso fenomeno culturale e politico dal quale l’ltalia da Ciampi in poi, con l’aiuto a volte ruvido dell’Europa, si stava affrancando. Ma nel quale, ho l’impressione, stiamo per ricadere».
Sentendola parlare, si ha quasi l’impressione che il populismo, che agonizza sul piano politico, stia prevalendo su quello culturale. Vede questo rischio?
«Il rischio c’è. Poiché in Italia, al di là delle distinzioni che Draghi o io possiamo fare, il disavanzo tende ad essere considerato eticamente buono sia a destra che a sinistra, oggi molti partiti dicono: “Finalmente, questa è la nostra Europa!”. È il trionfo del ruolo provvidenziale dello Stato, ora – si ritiene – legittimato anche dall’Europa».
Lei crede che rispetto all’Italia l’indulgenza da pandemia dei Paesi nordeuropei nasca da un superamento reale dei pregiudizi o sia solo una parentesi destinata a richiudersi presto? Restiamo le cicale mediterranee di fronte alle formiche protestanti e frugali del Nord?
«Ci sarà tra uno o due anni un incontro, delicato e interessante, tra l’Europa e un’Italia riconciliata con l’Ue per il sostegno finanziario ricevuto e per la licenza a fare disavanzo nostro, quasi fosse nata un’Europa all’italiana. Ma l’Ue in uno o due anni ricomincerà a farsi sentire come condizionamento: su quei fondi che ci arriveranno per il Pnrr esistono condizioni stringenti, così come sulle riforme da fare. Céline Gauer, la funzionaria europea che guida la task force che verificherà il rispetto di queste condizioni (non a caso è soprannominata “la zarina del Recovery fund”, ndr) non farà sconti: sarà dura, ci saranno veri controlli. Dobbiamo sapere fin d’ora che c’è una componente di ferro dentro il guanto vellutato dei finanziamenti. E si riaprirà il dibattito su un ritorno di qualche regola, anche se modificata: sui bilanci pubblici, sugli aiuti di Stato, su una politica monetaria meno accomodante. Ma l’Italia forse si illude che l’Unione sia pentita di essere anche l’Unione delle regole. Quando tutti i Paesi usciranno dal pronto soccorso finanziario e dalla vacanza delle regole, sono curioso di vedere come si affaccerà l’Italia».
Secondo lei?
«Le riforme sono il motore della crescita, non i soldi europei. E qui si pone la questione politica di un governo a maggioranza molto ampia».
E infatti Matteo Salvini, capo della Lega, già dice che con una maggioranza del genere le riforme non si faranno.
«Sì ma è un paradosso. Questa è una maggioranza chiamata a riunirsi su vaccini e Recovery Fund: il programma di governo è questo. E tutti i partiti, tranne Fratelli d’Italia, sono entrati nella coalizione. Ma una volta a bordo, perché era conveniente lasciare il segno sulla trasformazione dell’Italia pagata dall’Europa, hanno cominciato a mostrarsi riluttanti e litigiosi perché nessuno vuole cedere privilegi o rinunciare alle rendite di posizione. Basta pensare alle liti tra forze diverse ma anche alla conflittualità delle Regioni. Un principio dovrà però imporsi: l’unità nazionale ha senso se serve a fare, coinvolgendo tutti, cose che sono sempre state dette ma mai fatte. Così è stato nel dopoguerra, per costruire lo Stato repubblicano; negli anni Settanta, per sconfiggere il terrorismo; nel 2011, per evitare il fallimento dello Stato. Non credo proprio che ora, con l’unità nazionale forgiata da Mattarella e guidata da Draghi, i partiti possano pensare di essere saliti a bordo per avere ciascuno una parte di popolarità derivante dai fondi del Pnrr ma senza pagare il ticket necessario. Dovranno pagarlo, in forma di una ben ripartita impopolarità alla quale ciascuno di essi dovrà andare incontro, scontentando un po’ i rispettivi elettorati. Se rifiuteranno, non si potranno fare le riforme, indispensabili per avere i fondi europei e la crescita. Sono certo che il presidente Draghi, con l’autorevolezza e l’intuito politico di cui sta dando prova, saprà distribuire equamente questo carico inevitabile, senza preoccuparsi troppo se di volta in volta creerà qualche insoddisfazione in questo o quel partito».
Possibile che l’Italia sia condannata a dover ricorrere periodicamente a tecnici: da Lamberto Dini a Carlo Azeglio Ciampi, a Mario Monti fino a Mario Draghi. Si oscilla tra populismi e commissariamenti di fatto. Da che cosa dipende secondo lei? E che cosa può arrivare dopo?
«Questo lo dovrebbe chiedere ai “veri” politici. Si vede che, con le dovute eccezioni, quando sono loro a governare lo fanno pensando più all’interesse del loro partito o proprio, che all’interesse del Paese. Così si accumula polvere sotto il tappeto e ogni tanto, quando per qualche ragione non si può più tirare avanti, si chiama qualcuno a fare pulizia».
Be’, è cominciato in coincidenza con la fine della guerra fredda.
«In verità quello di Ciampi non fu un governo di unità nazionale, bensì di centrosinistra che successe al governo Amato quando questo, a causa di “Mani pulite”, perdeva un ministro al giorno. E Dini andò a Palazzo Chigi a guidare un centrodestra, quando Umberto Bossi nel dicembre 1994 lasciò Silvio Berlusconi, che perse la maggioranza. Ciampi e Dini subentrarono perciò a governi che erano entrati in crisi, non furono chiamati perché il Paese fosse caduto in un’emergenza economica o finanziaria».
Nel caso suo e di Draghi sì. E forse non ha tutti i torti Romano Prodi quando parla del M5S come espressione di un populismo aggiuntivo, perché c’era già prima, in abbondanza.
«Sì, Draghi e io siamo stati chiamati per affrontare due emergenze, anche se molto diverse. Se pensiamo al populismo come mancanza di sguardo al futuro sono d’accordo: sono comportamenti che si traducono in disavanzo. Si sedano i conflitti dando soldi, che poi pagano le generazioni future. E il disavanzo è fabbricato nelle aule parlamentari».
Draghi è una garanzia e un’assicurazione rispetto ai nostri alleati internazionali. Basterà?
«E non sarà chiesto all’Italia che continui a governare oltre le colonne d’Ercole dell’elezione del capo dello Stato, l’anno prossimo? Il presidente Draghi è una garanzia senza precedenti, come riconoscimento internazionale e autorevolezza interna. E lo sta dimostrando. Certo, quando un Paese deve dipendere da una singola figura, che di fatto assume un ruolo decisivo, non è un bene. Un Paese non può procedere sulla strada di una scarsa responsabilità e pretendere di farlo solo perché ha in tasca una tessera di garanzia. Non può bastare. Il tema è quello di accompagnare questa fase ricostruendo su nuove basi una classe dirigente».
Teme la rivincita dell’austerità?
«Sarebbe un epilogo indesiderabile ma può capitare, se non facciamo attenzione. Il rischio per l’Italia è che questo periodo di sovrabbondanza monetaria, di dipendenza dagli aiuti di Stato e dall’intervento statale, di assenza di limiti al disavanzo e di fondi europei in arrivo diventi un periodo di ulteriore narcosi. Sarebbe gravissimo sprecare l’occasione che tutte queste circostanze favorevoli ci presentano».
Quanto può incidere questa situazione sulle nostre istituzioni? A 75 anni dalla nascita della Repubblica, le vede solide? Intravede comunque un’esigenza di riforma della Costituzione?
«Noi italiani spesso attribuiamo al sistema istituzionale responsabilità che secondo me risiedono piuttosto in noi cittadini e, a parte i momenti di calamità, in uno scarso senso civico. Sinceramente, vedo istituzioni più solide di quello che sembra. Dirò di più. Vedo vantaggi nell’avere una repubblica parlamentare e non presidenziale. Che ci siano cose da migliorare è indubbio: penso ai grandi limiti che, soprattutto in questa fase, mostra il regionalismo. Ma poiché siamo un Paese nel quale l’esercizio della politica fa perdere presto credibilità, è importante che la forma costituzionale permetta almeno a una figura di non venire logorata: mi riferisco al capo dello Stato. Pensiamo come sarebbe la vita politica senza neppure una figura davvero molto rispettata, come sono stati ad esempio i presidenti Mattarella, Napolitano, Ciampi. Questo è un elemento prezioso di stabilità. La mia seconda considerazione è sui governi parlamentari. Una Costituzione come la nostra permette la creazione di grandi coalizioni o di un’unità nazionale. In Germania, e in qualche occasione anche in Italia, ciò ha consentito risultati e riforme che non si sono rivelate possibili in repubbliche presidenziali, che spesso in astratto invidiamo. Ad esempio, Macron in quattro anni non è riuscito a realizzare una sua grande priorità, una riforma delle pensioni peraltro più blanda della riforma Fornero. Non ha potuto ottenere su ciò un impegno di unità nazionale, come invece è stato possibile in Italia durante l’emergenza finanziaria. E poi, gli elettori italiani mi sembrano caratterizzati da entusiasmi molto intensi e da pentimenti abbastanza rapidi. Un capo dello Stato eletto direttamente dal popolo, che fosse anche il capo del governo e perciò inevitabilmente figura di parte, temo che perderebbe in uno o due anni il carisma iniziale».