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 2021  maggio 30 Domenica calendario

Dan Peterson ricorda

L’uomo ha un paio di matrimoni alle spalle, ma con la stessa donna, Laura. La prima volta a Miami, 1997, a casa di Bob McAdoo, il testimone, nove invitati. Menù: costine di maiale, cipolle fritte, apple pie. La seconda a Milano, 2017: centocinquanta persone, Dino Meneghin testimone. Abiti lunghi, smoking e piatti stellati. Un pozzo di energia e di intelligenza, allenato agli schemi: del basket e della Settimana Enigmistica. E con in testa sempre la voglia di stupire. 
Dan Peterson: con lui conviviamo da 48 anni, è arrivato qui dal Cile dopo che per cinque stagioni è stato capo allenatore alla Delaware University. Da noi ha trovato l’America, in quella originale ci è venuto al mondo. Evanston, Illinois, 9 gennaio 1936.
«Mia mamma voleva che diventassi un artista. Sa, lei faceva la modista, creava capelli e borse. Aveva una calligrafia bellissima. Mio padre mi avrebbe voluto avvocato, lui è stato un tenente di polizia. Ma io dietro a una scrivania non ci volevo proprio stare».
Così ha scelto il basket, da giocatore non poteva durare penalizzato com’era dall’altezza e allora, innamorato pazzo di quello sport, ha virato sul mestiere di allenatore. Già, il basket. Compie 130 anni, tanti ne sono passati da quando James Naismith scrisse le regole di quello strano sport da praticare in palestra a Springfield nei giorni gelidi dell’inverno. Coach, siamo invecchiati meglio noi o la pallacanestro?
«Decisamente noi. Il basket come lo intendo io non esiste più, l’Nba si è trasformata in un tiro a segno. Meglio quello europeo allora».
Il basket non concepisce il pareggio: è un mondo giusto quello che si divide in vincitori e perdenti?
«John Wooden, santone della Ncaa, un punto di riferimento non solo in campo, diceva sempre che non conta il risultato ma sapere di aver fatto il meglio. È più difficile dare il meglio che vincere».
Ne è così sicuro?
«Allora le ricordo il motto di Alex Ferguson, enjoy the game».
Non proprio un perdente Ferguson. Che rapporto ha lei con la sconfitta?
«Le sconfitte aiutano a crescere, mi hanno segnato. Ma se non vai in campo senza pensare di poter vincere, allora è tutto inutile».
La vittoria può sorprendere?
«Allenavo il Cile, era la nazionale più piccola del mondo, il più alto non superava il metro e 95 e battemmo l’Uruguay in casa propria. Era il 1973, nessuno credeva in quella nazionale».
Se le dico Salonicco, che cosa le viene in mente?
«La rimonta più incredibile della mia carriera. Coppa dei campioni, 6 novembre 1986. Io alleno la Tracer Milano e all’andata perdiamo in Grecia di 31 punti. Come si prepara una gara di ritorno praticamente impossibile? Rimango in silenzio per tutta la settimana durante gli allenamenti, non sapevo che cosa dire alla squadra. I giocatori lavoravano solo con i miei collaboratori. Dovevo inventarmi qualcosa di semplice ma allo stesso tempo convincente per motivare un gruppo finito sotto un camion. E allora dico solo questo: la partita dura quaranta minuti, se recuperiamo un punto a minuto ce la possiamo fare. Banale, ma logico». 
Risultato finale Tracer-Aris 83-49. Turno passato e coppa dei campioni che poi sarà vinta. Che cosa ricorda di quella notte?
«La faccia incredula di Bob McAdoo, scioccato. E dico Bob McAdoo, uno che aveva già vinto tutto con i Lakers. Quella squadra ebbe un approccio mentale mai più visto dopo».
Nel 1922 i New York Reinassance sono la prima squadra a schierare solo afro americani. Nel 1950 la neonata Nba fa esordire i primi giocatori di colore. Oggi l’America è ancora sconvolta dagli incidenti a sfondo razzista. Il caso Floyd su tutti. Che Paese è diventato?
«La Polizia fa giganteschi sbagli, e lo dico io che di un poliziotto sono figlio. Ma il problema è che ogni cosa adesso diventa razzismo. La gente non chiama la polizia per dire ciao o buongiorno, lo fa perché si sente in pericolo, i poliziotti sono iper tesi e finiscono per perdere la testa».
Fino ad ammazzare un uomo?
"Certo che no. L’ho detto, giganteschi sbagli. Ma è un errore pensare che l’America sia razzista. Come lo è parlare troppo di razzismo. Ma ormai mi sono fatto una certa idea del mio Paese...».
Quale?
«Non più Stati Uniti, ma Stati Disuniti. Io sono centrista, non amo le ideologie. L’America, però, si sta indebolendo e una nazione per essere credibile deve essere forte e sicura. I presidenti mettono la mano sulla Bibbia e giurano di proteggerci dai nemici stranieri e domestici, ogni tanto ce ne dimentichiamo».
Ha scritto un libro, "La storia del basket in 50 ritratti", è la sua hall of fame. Chi mette sul podio?
"È stata una fatica immane scegliere. Anzi, una tortura. E sicuramente avremo scontentato qualcuno».
Faccia l’ultimo sforzo, il podio.
«Allora, Michael Jordan per l’intensità. Larry Bird per la tecnica e Julius Erving per l’eleganza».
Si alzi dalla panchina e scelga i migliori fuori dal parquet?
«Uso l’immagine del Mount Rushmore. Là ci sono scolpiti i volti di quattro presidenti, nel mio personale Rushmore c’è il presidente Harry Truman: sottovalutato da tutti, aveva due palle da biliardo. Poi il generale Douglas MacArthur e coach John Wooden. E infine mia madre Lillian, una roccia. La mia fonte di ispirazione».
Trasferiamoci in Italia e faccia lo stesso gioco.
«Papa Wojtyla, un uomo eccezionale. Giorgio Armani, ha fatto conoscere il vostro Paese ovunque. Pavarotti e Leonardo da Vinci, il più geniale di sempre».
Ha portato il basket Nba in televisione, mamma butta la pasta era il grido di battaglia. Ma che Italia era quella che l’ha accolta rispetto alla versione contemporanea?
«Spaccava tutti quell’Italia, c’era una gigantesca voglia di stupire. Poi è arrivata Mani Pulite e non vi siete più ripresi, la circolazione delle idee è rallentata. Oggi l’Italia tende a piangersi troppo addosso, se la smette può tornare quella di una volta».
Sbarca da noi nel 1973, il suo primo ricordo?
«Le pennette alla vodka mangiate al ristorante Rodrigo di Bologna con il presidente della Virtus, l’avvocato Porelli. Non pensavo sarei uscito vivo da quel gusto. E poi la Settimana Enigmistica, non ho più smesso di farla da allora».
Come ha passato il tempo durante il lockdown?
«Sa che io ho sangue Cherokee nelle vene?».
No, ma che c’entra?
«Negli anni ho imparato la lingua degli Indiani americani, così durante il lockdown ho scritto un libro su di loro illustrato con i miei disegni».
A proposito di libri: la sua prima lettura?
«Guadalcanal Diary di Richard Tregaskis. Avevo 18 anni».
Il primo libro italiano che ha letto?
«Non leggo libri in italiano, ancora dopo tutti questi anni faccio fatica a leggere nella vostra lingua».
Ha mai visto un suo giocatore con in mano un libro?
«Difficile trovarne uno. Anzi, no. Joe Barry Carrol ha giocato solo un anno a Milano: ecco, lui veniva in trasferta con l’opera completa di Shakespeare».
Gliel’aveva suggerita lei?
«No, non ho letture così seriali. Tranne la Bibbia, che leggo ogni due anni in inglese. Non è necessario essere credenti per trovarla interessante».
Già che ci siamo. Dopo il podio per i giocatori, il pantheon degli scrittori. Autore e libro.
«Tutto Hemingway. James Jones e Da qui all’eternità, Mario Puzo e il Padrino, Jack London e il Richiamo della Foresta. Poi Mark Twain, James Fenimore Cooper e John Dos Passos».
Il più bel libro sul basket?
«Senza dubbio Basketball for the Player, the Fan & the Coach. L’ha scritto Red Auerbach, il più grande allenatore della storia dell’Nba. L’uomo che ha trasformato la figura di coach. In sedici anni ai Boston Celtics ha fatto dieci anni finali Nba e ne ha vinte nove. Insomma, c’è il basket prima e dopo di lui, ma se scavo nel tempo mi lasci citare un altro allenatore che è stato fondamentale per la mia formazione».
Prego.
«Claire Francis Bee, è l’inventore della zona 1-3-1 che mi ha fatto vincere tanto. E a proposito di libri, Bee ne ha scritto uno nel 1962 che è ancora molto attuale».
Un consiglio che darebbe agli allenatori di oggi?
«Di parlare di meno. Invece di scrivere una lettera, a volte con i giocatori basterebbe un telegramma. È più efficace».