Specchio, 30 maggio 2021
2045, odissea nel la culla
La specie umana è a rischio. Se non invertiamo la tendenza, entro il 2045 il mondo sarà infertile, il che significa che sarà impossibile fare bambini senza l’ausilio della fecondazione in vitro o di altre tecnologie riproduttive artificiali. Sta facendo discutere, in America, la tesi di Count Down, il libro della professoressa di medicina ambientale e salute pubblica presso il Mont Sinai di New York City, Shanna Swan: «Se si segue la curva della meta-analisi del declino dello sperma del 2017», ha dichiarato al Guardian, «si prevede che entro il 2045 avremo un conteggio mediano degli spermatozoi pari a zero. È speculativo estrapolare, ma non ci sono prove che si stia riducendo. Ciò significa che la maggior parte delle coppie potrebbe dover utilizzare la riproduzione assistita». Numeri che fanno paura, e che negli Stati Uniti – dove le regolamentazioni sono minime e dove il mondo della infertilità è quasi un far west - sono già realtà. Secondo l’American Pregnancy Association una coppia su otto incontra problemi dovuti alla fertilità, e il 33 per cento degli americani si è affidata a una qualche forma di tecnologia riproduttiva o conosce qualcuno che l’ha fatto. In quel 33 per cento ci siamo anche io e mio marito. Essendoci incontrati tardi nella vita, ben oltre i 40 anni, sapevamo dall’inizio che per noi avere figli sarebbe stata una sfida. Quello che però io non sapevo, quello a cui non ero preparata, essendo cresciuta in Italia e avendo ancora una mentalità molto italiana su tutta una serie di questioni morali («questa cosa non si può fare, è sbagliata», ripetevo a mio marito, che ovviamente da americano col mito della felicità individuale ad ogni costo non capiva) era che negli Usa in termini di riproduzione assistita è possibile praticamente tutto - da quella eterologa (con lo sperma di un donatore esterno) alla gestazione con la donazione di ovociti, fino ad arrivare alla maternità surrogata, il famoso utero in affitto di cui anche in Italia si parla tanto e che in Usa è praticabile in maniera del tutto legale in 46 dei 50 stati. Disponibilità economica a parte (la fecondazione in vitro può andare dai 10 mila fino ai 40 mila dollari, a seconda se di usino gli ovociti della madre o quelli di una donatrice), non importa la tua età e il tuo stato di salute, nessun medico ti dirà che per te avere un figlio è impossibile. Magari ti dirà che è difficile, magari - come il Dott John Zhang, fondatore della "New Hope Fertility Clinic" - ti farà dei disegnini su un foglio di carta per farti capire che le probabilità sono basse, ma nessuno ti dirà mai di no.
È stato così, con gli scarabocchi del Dott Zhang sotto braccio, che io e mio marito iniziammo nel 2016 la nostra avventura nel mondo della riproduzione assistita, partendo dalla cosa più banale: cercare di utilizzare le mie pur vecchie uova per tre cicli di "natural IVF procedure". Di quei mesi di frequentazione della New Hope ricordo l’organizzazione militare con cui Zhang e i suoi collaboratori riuscivano a gestire centinaia di donne di ogni colore ed età che giornalmente si presentavano per la trafila di esami del sangue ed ecografia, armate di numerino come alle poste, sedute nella sala d’aspetto dai colori neutri con il naso all’insù verso il tabellone che indica quando è il tuo turno per il prelievo, e dove la sensazione di non essere più una persona, figurarsi una paziente, ma una statistica è fortissima.
Dopo tre tentativi andati a vuoto con il Dott Zhang, fu la volta del Dott Schattman, del Weil Cornell Medicine, esperto di fecondazione eterologa e a capo di uno dei più grossi programmi di "egg donation" della città. I primi incontri con lui e il suo staff, psicologa compresa, andarono bene e fummo prontamente inseriti nel programma per la donazione di ovociti, quindi in attesa che fosse disponibile una donatrice con le caratteristiche che avevamo richiesto (nel nostro caso chiedemmo solo diploma, assenza di malattie mentali in famiglia e nessun uso di droghe o alcool, ma volendo si può richiedere anche colore di capelli e occhi e anzi, loro stessi chiedono una tua foto da bambina per selezionare una donatrice fisicamente simile a te). Non dovemmo aspettare tanto, e nel giro di pochi mesi ci furono presentate – in forma anonima - due possibili donatrici. Delle due, una ragazza di origini sudamericane, studentessa al College, appassionata di architettura e con nessun tipo di problema fisico né psicologico. Facciamolo, ci dicemmo io e mio marito, poco prima di telefonare al Dott Schattman e prendere appuntamento per il passo successivo, la sincronizzazione del mio ciclo mestruale con quello della donatrice. Era tutto pronto, eravamo convinti, fino a quando l’ospedale ci mostrò il questionario compilato dalla donatrice e io notai la sua scrittura, una di quelle grafie rotonde, infantili, con i puntini sulle i che sono quasi pallini e le vocali ciccione. Improvvisamente una cosa astratta come un ovocito divenne una cosa terribilmente concreta, una persona che evidentemente non ero io, così come quel bambino non sarebbe mai stato biologicamente mio, neanche se lo avessi partorito. Chiamai il Dott Schattman e cancellai tutto: «Non è per me», gli dissi. Non è quello che voglio. Mio marito ci mise di più a capire le mie motivazioni, le sedute dalla terapeuta diventarono settimanali, ma alla fine ci trovammo d’accordo: la soluzione che faceva per noi era l’adozione. Mai come in quel momento mi fu chiaro che il modo nostro per diventare genitori, quello che davvero volevamo, non passava attraverso la biologia, la scienza, le provette e gli ospedali, ma molto più semplicemente dall’amore. Quello che ci legava l’uno all’altro e quello che sentivamo di poter dare a un bambino che non ci assomigliasse.
Non ci siamo mai pentiti di quella scelta, mai no fu più azzeccato. Soprattutto oggi che nella nostra vita è arrivata Ella Mae, la bambina afroamericana che abbiamo adottato nel luglio 2020, a una settimana dalla nascita. Mia figlia in tutto e per tutto. La scelta più consapevole che abbia mai fatto in vita mia. E sottolineo scelta: pur con tutte le opzioni a mia disposizione per diventare madre, pur avendo considerato altre possibilità, pur vivendo in un Paese dove, se hai disponibilità economica, quasi nulla ti è precluso in termini di riproduzione assistita, l’adozione alla fine è la cosa che fa per me. Quella che sento in linea al cento per cento con i miei valori e la mia personalità. E sono grata di averla potuta scegliere io: non lo Stato, non la burocrazia, non i medici, non la mia età, neanche la mia salute. L’ho scelta io. Ed è una sensazione che non ha prezzo.