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 2021  maggio 30 Domenica calendario

Biografia di Pietro Sermonti raccontata da lui stesso

Rispetto a lui adolescente il giudizio è senza appello: “Ero uno stronzo clamoroso”; poi ha scoperto i libri, il palco, l’arte della recitazione, la politica (“Vent’anni fa ero a Genova, ancora prima a Napoli”) e ha scovato dentro di sé la giusta distanza tra due poli, realmente opposti, che hanno segnato la sua esistenza (“Mio padre comunista, intellettuale e senza una lira non era molto apprezzato dalla famiglia di mamma. A babbo devo molto”).
Il babbo era Vittorio Sermonti, dantista sopraffino e giornalista de l’Unità; la mamma è Samaritana Rattazzi, figlia di Susanna Agnelli, per molto tempo scioccata per la scelta del figlio di lasciare Scienze Politiche e diventare attore (“Non gli ho parlato per un mese” ha spiegato a Stefano Lorenzetto sul Corriere).
Lui è Pietro Sermonti, 50 anni a ottobre, una verve comica inaspettata, un desiderio vitale di ridere di sé senza sfuggire ai problemi o ai dubbi; un passato da promessa del calcio, poi l’arrivo di Luca Ronconi, la prima fama con Un medico in famiglia (“ancora mi fermano per quel ruolo”), una seconda con Boris, poi una terza, una quarta, e ora è tra i protagonisti di Tutti per Uma, una commedia a tratti surreale, divertente, in cui recita accanto a Lillo e Antonio Catania.
Lei non ha i social.
Non ho una mazza, sono un uomo del 900; e poi, grazie a Dio, il mio popstarismo si è diluito nel tempo, anche perché ho perso tutti i capelli e non sono attraente come vent’anni fa.
Quindi vent’anni fa era un bonazzo…
Rispetto a oggi avevo i capelli e recitavo in Un medico in famiglia; oggi sono un uomo di mezza età più interessante.
Dà poche interviste.
Ai tempi del Medico, ne rilasciai una che mi costò quasi una rappresaglia: mi presentai con una maglietta con sopra la scritta “Giù le mani dall’articolo 18”; quella scritta suscitò qualche dubbio dentro la Rai.
In Tutti per Uma è surreale.
(Ride) Penso a Lillo che in conferenza stampa ha dichiarato di sentirsi usato per il suo corpo, per il suo essere un sex symbol. È un genio. Da anni volevo stare con lui su un set.
Con chi altro vorrebbe?
Tantissimo con Fabrizio Gifuni, Kim Rossi Stuart o Valeria Bruni Tedeschi; però molti sfizi me li sono tolti…
Tipo?
Tanti anni fa ho lavorato con Luca Ronconi e un Picchio Favino all’inizio della carriera.
Lei ronconiano.
Una delle esperienze più incredibili della mia vita: a quel tempo ero assistente alla regia di Cristina Pezzoli, per caso parlo con l’assistente di Ronconi per capire come poter entrare all’Accademia; in quel momento stavano allestendo Il Pasticciaccio e cercavano giovani e aitanti romani. Preso. All’improvviso mi sono trovato in mezzo a tutti attori usciti dall’Accademia, alle prese con uno spettacolo monumentale di cinque ore e passa.
Serie A. 
Una meraviglia, in quelle cinque ore accadeva di tutto: c’era chi mangiava, chi andava via e tornava, magari scoppiava una rissa e poi si fumava una canna; ma la vera magia si è materializzata nell’ascoltare Ronconi alla prima lettura: per cinque ore e un quarto ha letto e interpretato tutti i personaggi.
Si sentiva in difficoltà?
(Stupito) Difficoltà? Io mi consideravo un abusivo, uno scappato di casa: prima di entrare in scena stavo svenendo.
Metafora?
Macché! Eravamo al Teatro Argentina di Roma e quando mi sono accorto del sold out, mi è preso uno svarione: non ero pronto.
Cinque ore e un quarto non sono poche.
Popolizio nel frattempo andava a cena, Maria Grazia Bon dipingeva quadri; io stavo con i ragazzi di Torino e una delle comparse, pugliese, portava le orecchiette, mentre altri si presentavano con il vino: venivamo avvolti dalla puzza di broccoli e dagli effetti dell’alcol; (sorride) a un certo punto si materializzò anche Eimuntas Nekrošius che provava l’Otello in un’altra sala dell’Argentina: quella presenza rese ancor più evidente la distanza tra gli attori “alti” e noi, soggetti sporchi, pieni di sugo addosso, ubriachi, abbrutiti.
Suo padre era amico di Carmelo Bene.
L’ho conosciuto in camerino alla fine degli anni Settanta: era in scena con Pinocchio, ma allora non avevo la percezione di lui; poi, vent’anni fa, lo stesso Bene ha riportato quel Pinocchio all’Argentina e l’ho visto sette volte di seguito; stessa situazione con Sono un fenomeno di Peter Brook: alla settima replica si avvicinò preoccupato Bruce Myers, della serie “ma nun c’hai ‘na vita?”. Mi offrirono un tè.
Antonio Manzini la definisce: “Intelligente, ironico e colto”.
Persona fantastica, è un attore che non vuole più fare l’attore, quindi il massimo per chi recita; con lui ho girato la sua opera prima ed è stato un piccolo dolore: era una delizia ma è andata male; (cambia tono) eravamo in Puglia e un giorno sul set arrivò una giornalista bionda e procace e mi scambiò per Antonio; eppure in Puglia ho una certa fama grazie al Medico.
Ancora la fermano per quella fiction?
(È in Puglia per girare) Ora insomma: qui sono pelato, con la barba bianca e con una panza che sembro Calenda; quindi non mi riconoscono, e se mi riconoscono leggo nei loro occhi un certo imbarazzo, della serie “ammazza come si è ridotto questo”.
Dal Medico sono nate molte carriere…
In una delle prime puntate c’era Edoardo Leo, poi un giovanissimo Elio Germano e Stefano Fresi.
Fresi si defisce “innamoratissimo” di lei.
Sentimento corrisposto; ai tempi di Smetto quando voglio aveva un soggetto in testa: voleva raccontare la storia di un attore che non veniva scelto perché c’era sempre prima Battiston (spesso vengono confusi per la mole simile, ndr); lui è un vero artista: sa cantare, suonare, recitare, sembra uno formato alla scuola russa. È nella mia lista di amici per i quali sono felice se le cose vanno bene.
È raro nel suo mondo…
Premessa: dentro uno studio televisivo mi sento a mio agio come dal dentista senza anestesia, o come in una riunione del Kkk.
Detto questo?
Vado a Domenica In da Baudo: ero giovane e puro, prima di me c’era Kim Rossi Stuart per promuovere il primo film da regista, un film stupendo. Entro, mi siedo, e subito lodo Kim; mi giro e vedo l’ufficio stampa saltare sulla sedia, linciata al telefono perché stavo rubando dieci secondi per esaltare un altro.
Audace.
Infatti non cedo alla pubblicità: non posso sentirmi costretto a promuovere qualcosa che non mi piace, però amo esprimere il mio giudizio se qualcosa mi piace.
Le hanno proposto molte pubblicità?
Anni fa, ma il mio muso l’ho utilizzato solo per realtà che mi corrispondono come Banca Etica. Non per uno shampoo.
Per forza, è calvo.
Sogno di partire una settimana per un paesino sperduto della Turchia dove tutti girano con la bandana post-trapianto; quando Antonio Conte è tornato dall’intervento al ginocchio con una criniera alla Kevin Costner, ho detto porca miseria.
Ancora i capelli.
Per un attore sono importanti, altrimenti lasci le sgommate sui cuscini degli alberghi.
Eh?
Bruciano i tappi del vino e con il nero coprono la chierica; il problema sono i cuscini: la mattina ti svegli e trovi delle svirgolate improbabili, per questo negli alberghi evitavo il più possibile di far rassettare la stanza: mi vergognavo di ciò che avrebbero trovato; una specie di Sindone.
Sua madre racconta: “Ho scoperto della sua decisione attoriale con un biglietto: ‘Se vuoi venire a vedermi, siediti in ultima fila, altrimenti m’impappino’”.
Si piazzò in prima e fece bene, anche perché il numero di spettatori era inferiore al numero di attori sul palco; il gruppo era quello che poi avrebbe creato Boris, quindi Giacomo Ciarrapico e Mattia Torre (sceneggiatori) più Andrea Sartoretti.
Sartoretti suo compagno di banco.
Prima di lui proprio Giacomo, mentre Andrea è arrivato due o tre anni dopo: ci hanno bocciato talmente tante volte da separarci; mamma lo considerava una cattiva compagnia.
Quante volte bocciato?
Tre alla scuola francese e in terza media anche agli esami in italiano: lì sono svenuto davanti alla commissione, mentre fuori dalla finestra guardavo la pubblicità del collirio con Dalila Di Lazzaro testimonial; sono caduto di testa ed ero convinto che mi avrebbero promosso, invece no.
Torniamo al teatro.
Portavamo in scena spettacoli belli, magari in sale da quattrocento posti dove passavano i gatti, ma in platea cinque o sei spettatori, quasi tutti parenti.
Ma alla fine, sua madre, cosa le disse?
Davanti al mondo attoriale ha un approccio tutto suo: i bravi attori recitano ruoli da buoni, mentre i cattivi sono dei cani; io di solito sono un buono, e a volte questo alone mistico del bravo ragazzo è faticoso.
A vent’anni, giacca e cravatta, sembrava il ragazzo perfetto.
Ero molto dandy, ma da attore mi sono tramutato in camionista.
Da ragazzo veniva trattato da buon partito?
Mi interessava il pallone, ed ero uno stronzo clamoroso: ignorante, presuntuoso, una brutta persona. Poi ho scoperto il teatro, mi sono ammalato di lettura e sono diventato una persona meno peggiore.
Impietoso.
Ero caruccio, giocavo bene a calcio, me la sentivo calda.
E non era povero.
Qui ho una grande fortuna: il mio babbo; l’aspetto della mia esistenza che mi fa più sorridere è la distanza tra la percezione della mia ricchezza e la mia ricchezza reale; in molti mi parlano come fossi Lapo e non sanno come ha vissuto mio padre.
Come…
Viaggiavamo per l’Europa sulla sua A112, viveva in un appartamentino ed è stata la mia fortuna; magari un giorno racconterò l’entità della parte economica lasciata dal lato ricco della famiglia, con i quali ho sempre avuto pochissimi rapporti.
Sempre?
Da bambino percepivo che accadeva qualcosa di strano quando le persone scoprivano della mia famiglia materna, mentre ero più felice a Santa Marinella con mio babbo, piuttosto che dentro al “palazzo”.
A che età l’ha capito?
A 12 o 13 anni, quando ho deciso di diventare calciatore; d’estate ascoltavo i racconti dei miei cugini, poliglotti, che avevano viaggiato in tutto il mondo, mentre io no; io sapevo di avere un padre comunista, intellettuale e senza una lira, aspetto non ben visto, soprattutto dalla componente argentina di mia nonna.
E lei?
Sentivo questa distanza sulla mia pelle; (sorride) ho cantato Bandiera Rossa seduto a tavola con la Regina d’Olanda, oppure amavo il pallone perché la parola “compagni” mi riempiva; (cambia tono) da ragazzo giocavo a Roma nel Tor di Quinto, il nostro sponsor era l’Unità, avevamo la bandiera sovietica dietro la porta e il presidente era Massimo Testa, capo del servizio d’ordine di Berlinguer. Per me non era una questione politica, ma fisica, emotiva, fisiologica: con loro mi sentivo a casa, con gli altri in trasferta.
Cosa la fa inalberare?
Quando sento minacciare: attenzione, con questa scelta politica i capitali fuggono.
Suo padre, da dantista, non amava molto Benigni.
(Silenzio) Qui il discorso è complicato e sarebbe lungo: babbo apprezzava il suo modo di recitarla, i problemi sono successivi, su come ha utilizzato la sua opera, gentilmente saccheggiandola.
È scaramantico?
Ne sto uscendo, era un continuo, da bravo calciatore.
Cioè?
Stavo attento al piede con il quale entrare in campo, indossavo le catenine, poi altre forme deliranti di autocontrollo, come non pestare le strisce pedonali… vabbè chiudiamo la fase clinica.
La sua fiaba preferita.
Mio padre mi propinava i fratelli Grimm, però me la facevo sotto; mi piaceva quella di Hänsel e Gretel.
Lei chi è?
Ho già deciso l’epitaffio della mia tomba, l’ho sognato un paio di settimane fa: “Non tirò mai in porta con un compagno piazzato meglio di lui”. E poi c’è anche la parola compagno.