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 2021  maggio 30 Domenica calendario

Calenda cerca voti in periferia

«E certo che lo conosco Bastogi, mi’ sorella ha sceneggiato Come un gatto in Tangenziale ». Il pulmino di Carlo Calenda è appena arrivato in uno dei quartieri più difficili di Roma. Le residenze Bastogi — periferia ovest della capitale — sono da anni simbolo di degrado e di sconfitta. Nate per essere alloggi temporanei, sono diventate case, spesso occupate sfondando porte, o muri. «Qui non arriva il gas, stiamo ancora con le bombole», racconta uno degli abitanti mostrando una perdita d’acqua in bagno. Calenda guarda, ascolta. Mette da parte la tracotanza e le certezze buone per i social, il cui uso un po’ eccessivo gli è stato spesso rimproverato. Sa che qui non funzionano, non sono arnesi buoni da portare in periferia.
Sono sporche e scrostate, le sei palazzine dove i rifiuti si ammassano agli angoli, ma qualcuno cura rose che si arrampicano ai balconi. «Vot’Antonio vot’Antonio », grida un uomo dalla finestra, mentre un gatto attraversa il campetto da calcio deserto. L’ex ministro dello Sviluppo si cala subito nella parte: «Io con lui ci voglio parlare». Così sale al terzo piano lungo scale grigie e larghe, con le finestre che al posto dei vetri hanno teli di plastica tenuti insieme dallo scotch, con carrelli della spesa che spuntano agli angoli. «Io sono interdetto ai pubblici uffici, nun te posso votà», è l’accoglienza. «E non importa, dimmi che problemi avete qui».
«A Bastogi i problemi c’erano, ci sono e ci saranno sempre».
«E no — tenta di convincerlo Calenda — e che è? Una maledizione? ».
Dai balconi, arrivano urla di rabbia: «Andate a guardare i garage, andate a vedere lo schifo, che tanto poi ve ne tornate sulle poltrone al caldo!». Lui non fa una piega e cerca di parlare con le suore attraverso le finestre: sono in quarantena per il Covid. Non fanno opere, a Bastogi. La missione della congregazione è andare nei posti più degradati e pregare. I garage sono devastati dalle perdite d’acqua. «Qui ci sono i topi, gli scarafaggi», dice una signora — magrissima — che vive col figlio e la compagna di lui.
«Qui nessuno paga la luce, si attaccano», racconta l’uomo del terzo piano mostrando il piano di sotto a Calenda: c’è un terrazzo ricolmo di rifiuti di ogni sorta.
«L’avete chiamata l’Ama?».
«E che no?».
Ha una casa tirata a lucido, il finto parquet chiaro, la cucina scarlatta, il televisore al plasma con il satellite bloccato su Sole a catinelle di Checco Zalone. È scalzo, con un cagnolino in braccio a cui Calenda fa qualche moina. Accanto alla porta c’è un mosaico di foto che lo mostra con la compagna e il figlio di lei. «Cos’hai fatto per essere ai domiciliari? ».
«Mi hanno messo dentro a un’associazione».
«A delinquere?».
«A delinquere».
Carlo Calenda non ha l’aria sperduta di Antonio Albanese nel film con Paola Cortellesi. È al secondo giro dei municipi di Roma, per ognuno ha volantini con l’elenco dei problemi e delle possibili soluzioni.
Bastogi è l’inferno da cui molti non vogliono andar via. Vorrebbero il gas, però. Che qualcuno aggiustasse le perdite. Perciò Calenda sfodera insieme pragmatismo e accento romano. Ed esplode davanti a un macellaio di Boccea col ciuffo alla Elvis: «Aridaje co sta storia della ricchezza, io non so’ ricco, mia madre fa la regista, mio nonno era regista, che è n’artra cosa. E che non era bello Pane amore e fantasia?».
«E sì che era bello», è la risposta. «Io lo dico sempre ma tanto so che è inutile — dice sconsolato lui — ormai è passata questa cosa qui, anche se sono andato a lavorare a 18 anni per mantenermi all’università perché i miei spendevano tanto per aiutarmi a crescere la figlia che ho avuto a 16. Anche se essere mia madre non c’entra niente con essere Spielberg. È passata che so’ quello ricco, e non c’è niente da fare ».
Si avvicina Manuel, grande e grosso, con in testa un’idea precisa «Qui la prima cosa da fare è regolarizzare l’assegnazione delle case. Se ognuno paga un po’, aggiustare diventa più facile».
Ma non c’è niente di facile e mentre il pulmino "blu Calenda" si dirige verso Montespaccato, dietro le finestre c’è chi continua a inveire. E i cani abbaiano. E la macchina carbonizzata nel piazzale sembra stare lì da anni a dire di vendette. E di abbandono.