Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  maggio 29 Sabato calendario

Intervista a Mia Cuoto

Mia Couto non è uno che la fa facile. Sia che parli di letteratura, è un grande scrittore, che di razzismo, è un africano bianco o di scienza, è un biologo, il suo obiettivo è «restituire complessità» davanti a uno dei rischi maggiori del nostro tempo: la banalizzazione. Il più grande autore del Mozambico ha raccolto alcuni testi in un volume appena uscito per Sellerio L’universo in un granello di sabbia, saggi, conferenze, discorsi ufficiali. Cose molto diverse, tra loro, che iniziano con un racconto bellissimo e molto duro: il viaggio di Mia Couto a Beira, la sua città d’origine, pochi giorni dopo l’arrivo di un ciclone devastante. «Stavo preparando un romanzo ambientato lì - racconta al telefono da Maputo -. Ho capito che dovevo raccontare la mia esperienza partendo da questo evento tragico». E la grandezza del Mia Couto conferenziere è la stessa del Couto romanziere: saper raccontare l’umanità partendo da uno spicchio d’Africa, condensare la Storia da un dettaglio. Si compie così il solito (per lui) miracolo: sintetizzare l’esistenza in un granello di sabbia, come recita il titolo di questo suo ultimo libro.
Un tema ricorrente nei suoi scritti è la lotta agli stereotipi: si può dire che lei abbia voluto complicare cose troppo spesso banalizzate?
«Non userei il termine complicare, quanto piuttosto restituire complessità e diversità. La semplificazione è un artificio, un meccanismo ricorrente del nostro modo di pensare».
La visione che abbiamo dell’Africa è una delle cose che semplifichiamo troppo spesso?
«Mi chiedono spesso dell’Africa come fosse solo una. È come se mi chiedessero dell’umanità, senza considerare le differenze, di tempo, di spazio e di condizioni. Parleremmo della società umana senza tenere in conto le distanze culturali? No. Lo si fa con l’Africa».
Gli africani lo fanno con gli europei?
«Facciamo la stessa cosa, come se aveste un’identità unica, eppure le differenze che esistono tra l’Italia e la Polonia o la Svezia sono enormi forse maggiori di quelle tra l’Italia e la Tunisia. Mi seduce riscoprire l’idea che le identità sono ricostruzioni storiche e sociali».
Lei afferma che di fatto non c’è mai stato un post colonialismo. Perché?
«Faccio una premessa: il processo di indipendenza dei Paesi africani ha segnato una rottura enorme politica e sociale. E i rapporti tra le nuove nazioni africane e il resto del mondo ha inaugurato un nuovo periodo storico. Il problema risiede nelle relazioni economiche: in questo campo l’Africa continua ad avere la funzione che aveva ai tempi delle colonie: il luogo delle materie prime».
Vale anche per la letteratura?
«Sì. È un buon esempio per spiegare quello che voglio dire. Noi scrittori africani nei trent’anni successivi all’indipendenza eravamo prigionieri di uno stereotipo, secondo il quale questo è il continente più autentico, quello più vicino alla natura, legato alle tradizioni della magia. In fondo questo ricorso al folklore, pur senza volerlo, era un modo per rimanere all’interno dello sguardo del colonizzatore».
La nuova generazione di scrittori vive intrappolata negli stessi schemi?
«Finalmente gli autori del nuovo secolo hanno cominciato a scrivere soltanto per fare letteratura, per raccontare la propria visione del mondo. Gli scrittori di oggi sono scrittori. Punto. Non devono fare i conti per forza con la presunta identità africana. Come uno scrittore italiano non deve ribadire ogni momento che è italiano».
Il vittimismo africano, che lei denuncia, è una parte della visione stereotipata?
«Sicuramente sì. E anche una certa ingenuità. Negli anni 60 e 70, quelli della lotta di emancipazione, c’era un’idea di Africa come di una grande madre. Un concetto romantico di una donna che allevava i propri figli. Poi però le lotte nazionaliste hanno messo in risalto le differenze fra i vari Paesi del continente. E questo è diventato un modo per dare dignità all’Africa. I conflitti vecchi e nuovi, tra africani sono diventati il motore della nostra storia. L’altra idea della quale è stato difficile liberarci è l’idealizzazione dell’Africa precoloniale, come di un luogo dove tutti vivevano in armonia. Anche se sappiamo che la storia non è andata così».
Lei scrive: dietro a questa idealizzazione c’è un’aggressione alla diversità, perché?
«È attraverso il diritto alla diversità che possiamo costruire il nostro destino, libero dai fantasmi coloniali e da quelli nostri. Possiamo dire: abbiamo un destino perché siamo diversi».
Al centro di un capitolo del suo libro c’è Nelson Mandela, molto toccanti i brani del rapporto con il suo carceriere: cosa resta oggi della sua figura?
«Mandela continua a essere un orgoglio e un punto di riferimento per tutti gli africani, etico e morale, più che politico. Il rapporto con il carceriere è più che simbolico: Mandela non ha liberato soltanto gli oppressi. Ha liberato anche gli oppressori. Per questo motivo non è stato soltanto ammirato. È stato amato. Oggi persino lui viene messo in discussione».
Chi mette in discussione Mandela?
«In alcuni Paesi ci sono correnti che lo contestano per essere stato troppo blando e accondiscendente con i bianchi. Mandela ha unificato le razze, questo è un merito storico».
A cosa si devono queste critiche?
«È frutto di una retorica che arriva dall’America. I movimenti che nascono lì pretendono di avere una visione unica. Ma quando quei discorsi arrivano in Brasile, o arrivano qui cambia tutto. Per la cultura nordamericana basta una goccia di sangue nero, perché tutti, compresi nipoti e pronipoti siano considerati "neri" , come se non si potesse più tornare bianchi. Questa visione semplicistica, quando arriva in Brasile, neri e bianchi, cambia tutto e credo non aiuti a superare il razzismo».
E in Africa?
«Non esiste un razzismo unico. Dipende dal tempo e dai luoghi. Il razzismo va combattuto in modo assoluto, ma per farlo bisogna conoscerlo e quindi non ci può essere una formula unica».
Altro capitolo molto interessante del libro: una lettera al presidente Zuma dove denuncia la xenofobia nel Sudafrica di oggi.
«Quello che stanno subendo i lavoratori del Mozambico, bersaglio di odio e persecuzione, è inconcepibile. Ed è di fatto la negazione di quella "nazione arcobaleno" per la quale tanti sudafricani hanno lottato».
Come avete vissuto l’arrivo della pandemia?
«Il Covid non si è diffuso così gravemente come in Europa. In Mozambico ci sono stati circa 800 morti, quindi non c’è stato il bisogno di fare un confinamento così duro come il vostro. L’idea della fine del mondo, che i miei amici in Brasile mi trasmettono qui non si è vissuta. Il conflitto nel nord del Paese ci ha sconvolti molto di più».
Bambini uccisi, uomini decapitati: il jihadismo ha attaccato duramente. Lì a Maputo come avete reagito a questa brutalità?
«Qui non c’è un problema immediato di sicurezza, ci sono tremila chilometri di distanza dal teatro della battaglia, ma è chiaro che da un punto di vista emotivo siamo molto vicini: sembra di vivere un film dell’orrore. Per un Paese che ha una cultura del dialogo molto spiccata è uno choc trovarsi davanti a gente che commette cose così crudeli e disumani. Non hanno voce, non sappiamo chi sono. Il fatto di non capire rende tutto più duro».
Ci spieghi la cultura del dialogo del Mozambico.
«Utilizzerò un episodio che mi è successo di vedere. Io faccio parte di una commissione scientifica al governo, un giorno uno sciamano ha visitato il ministero della salute e ha detto: "Noi non conosciamo questa malattia, ma quando voi scoprirete la lingua del virus fatecelo sapere, perché vogliamo conversare con lui, possiamo convincerlo". Al di là dell’episodio, che può sembrare folkloristico, qui la cultura dominante è quella di risolvere i problemi attraverso il dialogo e la ricerca dell’armonia. Tra morti e vivi, tra cose visibile e cose invisibili».
Che momento vive la letteratura mozambicana?
«La guerra civile ha annullato le opportunità di una generazione, che ha fatto molto fatica a frequentare le scuole. Nel 1992 la guerra è finita, e c’è una nuova generazione, specie nelle zone urbane, che ha cominciato a pubblicare cose molto interessanti. Soprattutto nella poesia, che qui prevale della prosa».
Perché in Mozambico la poesia prevale sulla prosa?
«La poesia è un’esaltazione di un futuro lontano, è come una preghiera, un appello. Il Mozambico che non ha mai avuto un rapporto tranquillo con la propria identità, la poesia ci aiuta a capire, forse in modo romantico, quello che potremmo essere. La prosa non ha bisogno del sogno, ma di qualcosa che già esiste ed è già sedimentato».
Lei utilizza un portoghese molto sofisticato, che rende molto complicato il compito dei traduttori...
«È vero, purtroppo. Anni fa mi sono impegnato nel dimostrare che esisteva un altro modo per scrivere il portoghese. Era un processo di ricreazione. Se uno cammina per le strade di Maputo, scoprirà che c’è un portoghese in continuo processo di creazione. E per uno scrittore è una cosa meravigliosa. È come scoprire ogni giorno un nuovo punto di vista. Ascoltare qualcosa che è comunque familiare. Ci si inventano nuove parole e c’è un modo molto libero di riconquistare il portoghese. E poi ci sono 25 lingue vive che convivono con il portoghese».