Tuttolibri, 29 maggio 2021
Philip K. Dick secondo Emmanuel Carrère
È una notte del 1969. Philip K. Dick riceve una telefonata da Timothy Leary, che chiama dalla stanza d’albergo di John Lennon in Canada, dove i Beatles si trovano in tournee.
Lennon e Leary, sonoramente strafatti, hanno appena letto il suo ultimo libro, Ubik, trascinati da un misto di entusiasmo e timore reverenziale, che nel senso greco del termine sono ardori alquanto affini.
«È questo! Esattamente questo» singhiozza Lennon che strisciando sulla moquette dal fondo della stanza fino al telefono, ha afferrato la cornetta per congratularsi con Dick di aver scritto il grande romanzo sull’acido, l’equivalente letterario dell’album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, in particolare del brano Lucy in the Sky with Diamonds, le cui iniziali sono un omaggio all’LSD.
In seguito Dick si chiederà spesso se abbia avuto realmente a che fare con Lennon e Leary o non piuttosto con due burloni che si spacciavano per Lennon e Leary, se non addirittura con qualcosa di molto più minaccioso di due burloni: speculazioni simili sono il piatto preferito di un paranoico.
Una decina d’anni più tardi, il suo collega polacco Stanis?aw Lem, autore di Solaris, scrisse su di lui un lunghissimo articolo, sostenendo che l’abisso fra Dick e gli altri autori di fantascienza fosse paragonabile solo a quello che separava il Dostoevskij di Delitto e castigo da tutti gli altri autori di romanzi d’indagine: ricorrendo a un genere subalterno e puerile, Dick esprimeva verità segrete, visionarie, immense sul mondo moderno e, più in generale, sulla condizione umana, cosa che non gli era mai riuscita tanto bene come con Ubik. Più o meno in quello stesso periodo, Dick ricevette la visita di uno dei suoi editori francesi, Patrice Duvic, il quale dichiarò solennemente di ritenere Ubik - ancora Ubik - uno dei cinque libri più importanti mai scritti. «Wait a minute, Patrice: intende dire uno dei cinque libri migliori di fantascienza…». Ma no, insistette l’altro: uno dei cinque libri più importanti della storia umana, insieme alla Bibbia, al Tao Te Ching, al Libro tibetano dei morti, e poi a un quinto che Dick non ricordava più.
Quelle lodi iperboliche lo avevano turbato. A lui non sarebbe mai venuto in mente di considerare Ubik una delle sue opere migliori. Più che il libro ricordava l’orribile periodo della sua vita in cui l’aveva scritto, quando ogni cosa andava disgregandosi, nel suo terzo matrimonio e nel suo cervello. Era il 1968, lo stesso anno dell’uscita del capolavoro di Kubrick, 2001: Odissea nello spazio. Dick, come chiunque, lo aveva visto, e a impressionarlo di più era stata la scena in cui l’astronauta sconnette il computer di bordo HAL 9000, colto da follia omicida. Via via che i circuiti vengono staccati, la voce sintetica, cosi fredda e pacata, si fa sempre più grave, come un disco suonato alla velocità sbagliata, e per assurdo sempre più umana e patetica. HAL, inizialmente consapevole di quanto sta accadendo, supplica di essere risparmiato. A poco a poco, il cervello elettronico all’interno del quale l’astronauta porta a compimento la sua opera di morte perde il contatto con i propri componenti. La sua mostruosa intelligenza artificiale l’abbandona, eppure ciò che perdura e proprio quello che passa per essere una peculiarità dell’uomo, la cosa meno accessibile a una macchina: la sofferenza. Poi anche la sofferenza scompare, o perde la facoltà di esprimersi. Non si sentono più che frasi incoerenti, frammenti di canzoncine sfuggiti dalle unità di memoria devastate.
Daisy, Daisy, give me your answer do…
Poi più niente.
E a questo che fanno pensare i libri scritti da Dick alla fine degli anni Sessanta. E a questo che fa pensare in particolar modo Ubik: un tracollo psichico, la corsa erratica di una cavia da laboratorio resa pazza da un esperimento dal protocollo incomprensibile, un trionfo delle tenebre, del caos e dell’entropia. Il che non impedisce che i commenti estatici e atterriti di John Lennon, Timothy Leary, Stanis?aw Lem e Patrice Duvic siano autentici. Commenti che da parte mia sottoscrivo a grandi lettere… con la sola minuscola, occorre ammetterlo, per quello di Duvic, che doveva avere un po’ esagerato con le canne. Ubik è un libro basilare, stupefacente, vitale. Un’esperienza di lettura unica e traumatica, un incubo e nello stesso tempo una rivelazione.
In quanto a me, è il primo romanzo di Dick che ho letto, ancora ragazzo, e da cui non mi sono mai ripreso. Molto tempo dopo, ho scritto una sua biografia. E molto tempo dopo ancora - quasi trent’anni, una follia… - mi ritrovo a scrivere cinque prefazioni per le nuove traduzioni italiane dei suoi romanzi più importanti. Non so proprio da dove cominciare - a meno di ricopiare me stesso, cosa che preferirei evitare il più possibile - e allora provo a organizzare ognuno dei cinque libri intorno a un tema: la teologia e più precisamente la gnosi per Le tre stigmate di Palmer Eldritch, l’I Ching per L’uomo nell’alto castello, l’intelligenza artificiale per Gli androidi sognano pecore elettriche?, la musica e la malinconia per Scorrete lacrime, disse il poliziotto. E, per Ubik: la droga.
Cominciamo con un po’ di storia: vedrete, è interessante. Nel 1954, quindici anni prima che Dick scrivesse Ubik, Aldous Huxley aveva pubblicato il resoconto di una seduta mescalinica con un titolo preso a prestito da una frase di William Blake: «Se le porte della percezione fossero spalancate, ogni cosa apparirebbe all’uomo per come è, infinita». Brillante autore satirico all’inizio della sua carriera, Huxley aveva stupito non poco i suoi ammiratori orientandosi poi verso lo studio del misticismo e dell’esperienza comune che ne deriva, al di là delle differenze religiose - il che era anche la fissa del giovane Dick. La mescalina aveva prodotto in Huxley un effetto folgorante. «Essere sospinti fuori dalle linee dell’ordinaria percezione» scrive, «ricevere per qualche ora al di là del tempo la manifestazione del mondo esterno e di quello interno, non come essi appaiono all’animale ossessionato dalla sopravvivenza o a un essere umano ossessionato dalle parole e dalle nozioni, ma come sono captati, direttamente e incondizionatamente, dall’Intelletto in genere: questa è un’esperienza di valore inestimabile per chiunque. Ciò che i teologi cattolici chiamano "grazia gratuita", da accettare con riconoscenza, se resa ottenibile».
Un’esperienza mistica, insomma, un accesso alla Realtà assoluta: che c’è di più desiderabile? Eppure, descrivendo questa esperienza, Huxley non aveva potuto esimersi dal riferire che l’immersione nella Realtà non è prerogativa esclusiva dell’estasi mistica, ma contraddistingue anche la pazzia. Se ad alcuni procura saggezza e beatitudine, ad altri incute spavento - e cito ancora -, «inducendoli a interpretare la sua incessante stranezza, la sua bruciante intensità di significato, come manifestazioni di una malevolenza umana o perfino cosmica, che richiede le più disperate contromisure, dalla violenza omicida alla catatonia. E una volta iniziata la discesa della strada infernale, non si è più in grado di fermarsi. Una volta presa la via sbagliata, tutto ciò che accade e una prova della cospirazione in atto contro di voi. Sì, conclude Huxley, «credo di sapere adesso che cos’è la pazzia».
I primi che sperimentarono l’LSD 25, sintetizzato nel 1943 da Albert Hofmann per conto dei laboratori Sandoz, non immaginavano che questa sostanza dagli effetti molto simili a quelli della mescalina potesse servire ad altro: capire, dall’interno, che cos’è la pazzia. Essendo per la maggior parte psichiatri, la consideravano una sorta di «simulatore della schizofrenia» che permetteva di provare ciò che provavano i loro pazienti. E solo in seguito che, sotto l’influenza di Huxley e dei gruppuscoli scientifico-religiosi che gravitavano intorno a lui a Los Angeles, si pensò di ricorrere all’LSD per conoscere la Realtà assoluta. Alcuni non esitarono a definirla con il più arcaico dei suoi nomi in codice: Dio.
Quando scoprì Le porte della percezione, libro che nella California dei primi anni Sessanta aveva già un grande seguito, le idee che Dick vi trovò sviluppate gli suonarono alquanto familiari. Erano cose che lui stesso aveva sempre pensato. Scrittore proletario, incatenato al tavolo di lavoro per mantenere la famiglia operando all’interno di un genere che un po’ lo faceva vergognare, si considerava comunque, nel suo piccolo, un vero esperto nel duplice campo della teologia e della malattia mentale. Ma a quell’epoca non aveva preso né la mescalina né l’LSD, tantomeno si era mai fatto una canna, quindi si sarebbe meravigliato non poco se gli avessero dato del drogato. Certo, prendeva pillole di continuo, Serpasil per la tachicardia, semoxidrina per l’agorafobia, e benzedrina, soprattutto benzedrina, vale a dire anfetamina, che gli permetteva di scrivere un romanzo in tre settimane senza dormire.
Pagava quelle surriscaldate fasi di creatività con tracolli depressivi e sintomi decisamente psicotici: disturbi della percezione, perdite di memoria, accessi di panico, pulsioni suicide… A volte pensava, e in ogni caso lo penso io per lui, a questa frase cosi minacciosa di Cartesio che si può considerare come l’assioma di base dei suoi libri, e di un’intera cultura popolare la cui espressione più compiuta è Matrix: «Come posso assicurarmi di non essere alla mercè di un demone ingannevole, malefico e infinitamente potente, che vuole spingermi a credere nell’esistenza del mondo esteriore… e del mio corpo?».
Sospettava che quel demone malefico, al quale attribuiva nelle Tre stigmate il nome di Palmer Eldritch e in Ubik quello di Jory, lo aspettasse, rannicchiato nel buio, sul fondo di tali stati d’animo, ma quella era la regola del gioco, il contratto che ormai era troppo tardi per discutere. Sapeva che quel genere di contratto conteneva clausole scritte in caratteri minuscoli che un giorno avrebbe dovuto decifrare, ma adesso era troppo tardi per tornare indietro: aveva fatto del proprio organismo uno shaker per cocktail chimici e tutto il suo problema si riduceva a trovare di che riempirlo, in modo da riuscire ad affrontare una vita le cui circostanze reclamavano un qualche additivo, oltre a diverse altre cosucce per contrastare gli effetti collaterali.
Torniamo alla storia dell’LSD in America, di per sé appassionante ma soprattutto molto simile a un romanzo di Dick, sotto ogni aspetto. Potete giudicare da voi, in base a quanto è successo a Harvard agli inizi degli anni Sessanta. Alcuni rispettabili professori avviano un programma di ricerca su una droga ritenuta utile nel campo della psichiatria. Fin dai primi esperimenti, i colleghi e gli amici li trovano cambiati: hanno le pupille dilatate, l’aria estatica e misteriosa, non fanno che parlare di amore, di estasi, di fusione con la divinità. Alla richiesta di maggiori dettagli, si fanno evasivi: è impossibile descriverlo, se ne può solo fare l’esperienza. Quelli che la tentano, ne escono trasformati a loro volta. A meno di seguirne l’esempio, non è più possibile comunicare con loro. La voce si sparge per tutto il campus, sempre più persone vanno a bussare alla porta del piccolo ufficio occupato dal dottor Timothy Leary, chiedendo di essere iniziate. Ha tutta l’aria di un’epidemia. Leary comincia a tenere delle conferenze, a spiegare ai giornalisti che l’umanità sta per intraprendere una svolta decisiva. Non è un caso, dice, che Albert Hofmann abbia sintetizzato l’LSD proprio mentre Enrico Fermi stava lavorando sulla fissione dell’atomo. L’uomo ottiene da una parte il mezzo per distruggere la propria specie, dall’altra quello che le consente di raggiungere uno stadio superiore dell’evoluzione. Se accetta il secondo dono, supererà l’Homo sapiens. Conoscerà Dio. Meglio: diventerà Dio.
Discorsi simili non sarebbero riusciti, da soli, a convincere molta gente. Ma a differenza di altri visionari, Leary possedeva il mezzo, fornito dai laboratori Sandoz, perché potessero essere verificati. Chiunque si sottoponesse all’azione sconvolgente dell’LSD ne usciva nel peggiore dei casi attonito, ma più spesso convertito. Gli intellettuali e gli artisti si lanciarono per primi, ben presto seguiti da uomini d’affari e perfino da politici. Cary Grant uscì in copertina sulla rivista Time dichiarando che ne faceva uso tutte le settimane e che questo aveva radicalmente modificato il suo modo di vedere il mondo e di recitare. Dopo esserlo venuto a sapere, Dick andò a vedere il suo ultimo film, Sciarada, sperando di cogliere il cambiamento e, in effetti, a saperlo, qualcosa si notava. Era ormai diventato un luogo comune sostenere che una presa d’acido valesse tre anni di psicanalisi. La direzione penitenziaria (non sto scherzando) sottopose i detenuti del carcere di Concord, in Massachusetts, a una cura a base di LSD: la somministrazione di quel nuovo sacramento colmo quei criminali incalliti di ispirazioni mistiche, di cui si meravigliarono gli stessi secondini. E sul suo letto di morte, qualche ora prima della fine, il vecchio Aldous Huxley si fece fare un’iniezione di LSD, non come sedativo ma, al contrario, per non perdersi niente di un momento così importante come il proprio passaggio a miglior vita. Secondo Leary e i suoi discepoli, un tale cerimoniale sarebbe ben presto divenuto moneta corrente. Condurre una vita spirituale nel Ventesimo secolo senza LSD, pensavano, era come occuparsi di astronomia senza servirsi dei moderni telescopi. Si consideravano «antropologi del Ventunesimo secolo chiusi in una capsula temporale negli oscuri anni Sessanta del Ventesimo secolo», ma non avevano dubbi che la conversione globale fosse vicina. Al ritmo esponenziale con cui all’interno delle classi medie procedeva il decondizionamento cerebrale indotto dalla droga, erano convinti che verso la metà degli anni Settanta vi si sarebbe consacrato anche il presidente degli Stati Uniti, che i vertici internazionali si sarebbero svolti sotto l’effetto dell’acido e, ovviamente, il mondo non poteva che guadagnarci. (Se questo fosse successo, sarebbe interessante immaginare dove ci troveremmo adesso).
Come rivela la storia della telefonata di Lennon e Leary, alla fine degli anni Sessanta Dick conquista una nuova reputazione, riversandosi dall’ambiente ristretto della fantascienza in quello molto più ampio del mondo hippy, in quanto icona della controcultura e grande narratore dell’LSD. Tuttavia, lui d’acido non si era mai fatto. Non ne aveva bisogno perché in quel paiolo c’era caduto da piccolo ma, davanti all’insistenza dei suoi amici, finì comunque per provarlo, una sola volta, e fu evidentemente un errore. «Ragazzi miei, sono stato all’inferno e ci ho messo duemila anni a uscirne, strisciando»: così, non appena si fu ripreso, riassunse il suo viaggio a quelli che gli stavano intorno, e che ingenuamente si stupirono poiché i bad trips in quell’epoca di euforia erano piuttosto rari. Sotto l’effetto dell’acido, gli spiriti contemplativi percepivano il mondo come una calma epifania, come un quadro di Vermeer dolcemente pulsante al ritmo del loro sistema nervoso. Gli spiriti attivi, come un gigantesco flipper lampeggiante fino alla volta dei cieli e prodigo di partite gratuite. Lui solo si era ritrovato nel mondo da incubo dei suoi libri, e in seguito si sarebbe domandato incessantemente se quello che aveva visto, quel perfido paesaggio, quel labirinto in fondo al quale, pronto a divorarti l’anima, era in agguato un ragazzino con lo sguardo inquieto e crudele di un roditore psicotico (niente paura, non rivelerò altro su Jory), se quella prigione di terrore eterno fosse la Realtà assoluta o soltanto un riflesso della sua psiche - la qualcosa non era un’ipotesi molto più rassicurante.
Non assunse mai più un acido, e prese a considerare Timothy Leary come il diavolo. Gli capitava di fumarsi delle canne perché era quello che nel suo giro facevano tutti, ma le sue vere sostanze erano, e restarono fino alla fine, i farmaci. In Gli androidi sognano pecore elettriche?, ha dotato le case americane del Ventunesimo secolo di un computer che, collegato ai neuroni di chi lo utilizza, permette di scegliere l’umore che si preferisce da un catalogo straordinariamente assortito. Si programma l’apparecchio in modo da risvegliarsi di buon umore. In caso di lite coniugale è possibile trovare un dosaggio equilibrato fra un inibitore talamico che plachi la collera e uno stimolante che la esasperi quanto basta per avere la meglio nella schermaglia. Nel dubbio, è pur sempre possibile affidarsi al programma «spirito decisionale». Alcuni utenti più sofisticati si concedono programmi pirata che comportano fasi di «sterile depressione autoaccusatoria», cui in seguito pongono rimedio con «consapevolezza delle molteplici possibilità che riserva il futuro e rinnovata fiducia nella vita». E secondo questo genere di protocolli che Dick usava le pillole, ed è così che io stesso faccio uso dei regolatori dell’umore che mi sono stati prescritti, probabilmente a vita, da quando mi è stato diagnosticato il disturbo bipolare di tipo II - diagnosi, a mio avviso, pertinente a Dick, ma per dimostrare questo dovremmo spingerci troppo lontano. Diciamo soltanto che l’abuso di sostanze chimiche finì per bruciargli il cervello, facendolo sprofondare per quasi due anni non soltanto nell’abisso della droga, ma nel mondo sordido e subdolo degli eroinomani, esperienza dalla quale in seguito trasse un romanzo di una tristezza lacerante, Un oscuro scrutare.
Un titolo preso in prestito da san Paolo, da uno dei più celebri passaggi tratti dalla Prima lettera ai Corinzi: «Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto». Il riferimento a Paolo non è accidentale. Mi propongo di parlarne nella successiva prefazione, quella a Le tre stigmate di Palmer Eldritch. Nell’attesa, vi dirò soltanto che nel 1973 Dick fece un’esperienza estremamente insolita, cui dedicò gli ultimi dieci anni della vita per tentare di interpretarla. Certi giorni se la spiegava come una rivelazione mistica, una conversione tanto radicale, decisiva e carica di conseguenze storico-mondiali quanto quella dell’apostolo Paolo sulla via di Damasco; altri, come una patetica manifestazione della sua leggendaria paranoia, e altri ancora come un flashback allucinatorio dovuto all’acido. Girava in tondo fra queste diverse spiegazioni, paragonando senza requie quanto gli era successo alle diverse esperienze e dottrine spirituali conosciute. I suoi «documenti di consultazione», come amava chiamarli, andavano dall’Enciclopedia universale alle lettere di san Paolo, dall’Apocalisse al libro dell’I Ching - di cui conto di parlare quando giungeremo a L’uomo nell’alto castello -, dai Vangeli apocrifi e gnostici agli scritti esoterici di Jung, ma con il passare degli anni il suo decisivo riferimento bibliografico finì per diventare il suo stesso libro, Ubik, che non gli pareva più così tanto assurdo considerare come uno dei cinque libri più importanti della storia: uno di quei libri sacri, circondati da fiamme, come la Bibbia o il Libro tibetano dei morti, cui gli uomini si rivolgono e sempre si rivolgeranno per conoscere i misteri dell’universo e il segreto della loro condizione umana.
Ecco fatto. Ho detto quelle due o tre cose che mi ero ripromesso di dirvi e ora questa prefazione giunge al termine. Vi trovate sulla soglia del libro. Il libro di un uomo che ha visto Dio? Il libro di un uomo cui le droghe hanno fulminato il cervello? In ogni caso, varcare questa soglia equivale ad avventurarsi in un territorio dove non siete mai stati. Non avete idea di quello che vi attende. Io sì, ma adesso vi pianto in asso. Me ne vado in punta di piedi, e vi lascio soli.
Se avete paura, avete ragione ad averne.
Coraggio, adesso. Entrate. —
© 2021 Emmanuel Carrère
©2021 Mondadori Libri S.p.A., Milano