Hai raccontato per la prima volta di un tuo pesante litigio con John Cassavetes. Che accadde?
«Accadde che per Gli intoccabili, film del 1969, avevo preso come protagonista Cassavetes. Interpretava un gangster che si metteva contro la mafia. Pretese che al film lavorasse anche la moglie Gena Rowlands. Niente da eccepire, vista la bravura di entrambi. Quasi subito cominciò a contestare certe mie scelte. E questo sul set non è possibile. All’ennesima provocazione non ci vidi più. Giravamo in un capannone. Lo afferrai per la giacca e lo spinsi contro una serranda, urlandogli che non si doveva permettere. E che il rispetto era alla base della collaborazione. In quel momento non pensavo alla sua grandezza, ma alla sua stronzaggine».
A quel punto?
«Ci divisero e lui se ne andò lasciandoci nel pieno della lavorazione. Temevo il peggio, considerando il suo carattere. Ma il giorno dopo tornò. Pretesi le sue scuse che bofonchiò davanti alla troupe. Da quel momento i rapporti si normalizzarono. Arrivammo alla fine della lavorazione, quasi senza altri incidenti».
Ce ne furono di altro tipo?
«Ci fu l’incendio nello stabilimento dove giravamo le ultime scene, prima di partire per San Francisco dove avremmo finito il film. La cosa comica, se non fosse stata tragica, è che nel teatro di posa accanto la coppia Franchi e Ingrassia girava un film sui pompieri. Dopo qualche equivoco, dovuto alle divise delle comparse, arrivarono quelli veri».
Un altro attore con cui non ti sei preso è Klaus Kinski.
«Insopportabile, era un uomo aggressivo, violento, un pazzo e pensare che mi avevano avvertito. Ruppe un dito al capo macchinista, così senza motivo. Lo cacciai dal set, minacciandolo di non farsi più vedere».
Sei molto fumantino.
«Beh, non mi piacciono le prepotenze e ho, o almeno avevo, il fisico per dirlo».
A proposito di fisico, tu inizi nel cinema come attore.
«Da giovanissimo ho recitato in alcune filodrammatiche. Poi Carlo Lizzani mi notò e mi propose una parte in Achtung! Banditi!. Sapevo dell’impegno di Lizzani, delle sue aiuto regie con Rossellini e ne fui felice anche se lavorai praticamente gratis».
Perché?
«In quel 1950 non c’erano soldi. Per girare, Lizzani avviò una sottoscrizione cui partecipò una cooperativa di operai. Oltre a interpretare il ruolo di un commissario, lo aiutai alla regia. E lì scattò il primo interesse per la macchina da presa. Mi sembrava che il cinema fosse il mio mondo. All’epoca lavoravo al porto di Genova come spedizioniere. Mollai quel posto sicuro e mi trasferii a Roma».
Cosa lasciavi oltre il lavoro?
«Niente che potesse legarmi ancora a quella città.
Andai incontro a difficoltà economiche ma non mi scoraggiai. Il primo anno romano in pratica mangiavo solo supplì. Scrivevo qualche sceneggiatura e cominciai con le prime aiuto regie. Fu Gillo Pontecorvo a propormi di collaborare al suo La grande strada azzurra, poi ancora Lizzani e finalmente alla fine degli anni Cinquanta girai il mio primo film».
Racconti che fu per te un esordio traumatico.
« Tiro al piccione uscì nel 1961 e andò perfino al Festival di Venezia. Credo fosse in assoluto il primo film su Salò, sulla tragedia di quei giovani che scelsero di schierarsi dalla parte sbagliata. Non venne capito o uscì troppo presto. Sta di fatto che fu stroncato dalla critica di destra e di sinistra. Anche il pubblico lo disertò. Entrai in una crisi profonda, tanto è vero che pensai di tornarmene a Genova al vecchio mestiere».
Ritieni davvero che fosse un film sbagliato?
«Per l’epoca forse sì. Non c’era niente di nostalgico o di compiaciuto. C’era il bisogno di capire perché certi ideali non avessero necessariamente un colore politico. Non era qualunquismo, il mio. Una piccola soddisfazione però l’ho avuta quando, proprio per Venezia, il film è stato restaurato e ripresentato sessant’anni dopo. Beh, la gente non smetteva di applaudire».
Alla fine superasti la crisi.
«Fu solo grazie a Vera, che ho conosciuto in quegli anni e amato immediatamente».
Le hai dedicato questo libro dal titolo eloquente: “Un grande amore”.
«Non sarei stato niente senza di lei. Lo dico nella consapevolezza che per ogni cosa che ho fatto, ogni decisione presa, la sua presenza è stata imprescindibile».
Come vi siete conosciuti?
«Attraverso il fratello, Leo Pescarolo, che è stato anche il mio produttore. Persona fantastica. All’inizio un po’ geloso del mio interesse per la sorella. Avrei potuto accettare un rifiuto da Vera, ma non dal fratello! ».
Hai temuto che lei non ti volesse?
«La tirava un po’ per le lunghe e poi era impegnata nel suo lavoro su vari set e oltretutto era stata sposata e da quel matrimonio aveva avuto una figlia, Elisabetta.
Insomma, capivo la situazione: la resistenza, i dubbi.
Ma non mollavo e alla fine ce l’abbiamo fatta a metterci insieme. È la mia ragazza, e la vedo come fosse sempre la prima volta».
E lei ti convinse a non tornartene a Genova.
«Sì e dopo un po’, verso la metà degli anni Sessanta, arrivò anche grazie a Pescarolo il secondo film: Una bella grinta. L’unico attore noto che riuscii a prendere fu Renato Salvadori. Il film, contrariamente alle previsioni, ebbe un notevole successo di pubblico. Era stato girato nel bel mezzo del boom economico e raccontava la storia di un piccolo industriale senza scrupoli. Fui invitato perfino al Festival di Berlino.
Quell’anno concorreva Jean-Luc Godard e infatti vinse l’Orso d’argento con Missione Alphaville. Con Vera, che mi aveva accompagnato, decidemmo di partire il giorno prima della premiazione, convinti che i giochi fossero fatti».
E invece?
«La mattina seguente mi comunicarono che avevo vinto il premio speciale della giuria, più un altro premio legato al loro Senato. Ero stupito e raggiante.
Pensa che la sera, alla fine della cerimonia, mi allungarono una busta con dentro 40 mila marchi. Li divisi in parti uguali con Leo, un altro produttore e Salvadori. Non avevo mai visto tutti quei soldi per me. Renato corse via e si infilò in un casinò. 40 mila marchi era quanto c’era costato il film».
Nella tua lunga carriera non hai girato molti film.
«Perché a me piace scegliere piuttosto che essere scelto. Ho sempre amato fare dei film dove il tema dell’intolleranza e dell’ingiustizia risultassero il vero centro della storia. Ed è il motivo per cui ho girato Sacco e Vanzetti e Giordano Bruno ».
Però ti sei perso due generi che hanno avuto molto successo da noi: il western e la commedia all’italiana.
«Di western me ne hanno proposti. Ma Vera minacciava il divorzio, diceva che ero inadatto e del resto o sei Sergio Leone oppure è meglio lasciar perdere. Quanto alla commedia, c’erano già registi e attori eccezionali: Monicelli, Scola, Risi, parliamo di gente che conosceva perfettamente il tempo comico.
E poi gli attori: Gassman, Tognazzi, Sordi. Ho anche un po’ sofferto per questo».
In che senso?
«Ma tu non sai cosa erano di solito i produttori romani: “A Giulià ma che voi, voi girà? Fatte venì n’idea divertente».
Hai sopportato molti rifiuti?
«No, e poi ero tenace. Ricordo che per un soggetto al quale tenevo mi presentai tutte le mattine allo studio di Carlo Ponti. E lui niente. Neanche mi filava. Dottor Ponti, ci sarebbe… E lui: per carità, ora non ho tempo. Sta scena penosa è andata avanti per un mese».
Ma la tua idea cos’era?
«Era il soggetto per realizzare Giordano Bruno. Ponti se ne fotteva della filosofia e del fatto che quello fosse stato messo al rogo. Quando finalmente gli parlai del film che intendevo girare, lui mi disse: ma non sarebbe stato meglio farlo papa? Alla fine lo convinsi, credo per stanchezza».
Sia in “Sacco e Vanzetti” che in “Giordano Bruno” hai lavorato con Gian Maria Volonté. Come è stato il vostro rapporto?
«Ottimo ma faticoso. Gian Maria aveva di speciale che si immedesimava talmente nella parte da assumere l’identità del personaggio. E questa identificazione continuava anche fuori dal set. Parlava e pensava come Giordano Bruno o come Bartolomeo Vanzetti.
Ricordo come guardava Sacco anche fuori dalla scena, cioè Riccardo Cucciolla. Era, come dire, premuroso, gentile, attento. Riccardo hai sete? Vuoi che ti prenda qualcosa? Questo era Volonté: la metamorfosi lo possedeva senza interruzioni fino alla fine del film. Per il resto fu un uomo solitario».
“Sacco e Vanzetti” è anche famoso per la colonna sonora e per la canzone cantata da Joan Baez. Come arrivasti a lei?
«Intanto la musica bellissima è di Ennio Morricone.
Straordinario in tutto. Gli dissi che per un film così sarebbe stata perfetta una ballata. E gli proposi la Baez. Era una cantante famosissima. Che non sapevo come raggiungere. È stato Furio Colombo che la conosceva bene a passarle la mia sceneggiatura. E il giorno dopo lei mi telefonò per dirmi che era felice di partecipare con la sua voce. E quella ballata è diventata un po’ il simbolo di tutta la storia. La porta d’ingresso al successo».
Un altro successo di proporzioni internazionali fu il film televisivo su Marco Polo.
«Mi fu proposto, all’inizio ero incerto. Ma l’idea di visitare un paese dove allora era difficile entrare mi convinse».
Che Cina trovasti?
«Quello che vedemmo mi riportava al medioevo. Non dico Pechino o le altre grandi città. Ma il paese rurale.
Dormivamo su letti di paglia con i cuscini riempiti di riso. Pensa che a causa del fatto che vestivano tutti allo stesso modo, all’aeroporto di Pechino scambiammo il viceministro della cultura per il facchino. Lui si era proposto di portarmi la valigia e noi gliene mollammo altre quattro. Stemmo lì dei mesi. Riuscii perfino a girare nella Città Proibita. Ero il primo occidentale, dopo non so quanto tempo, a entrarvi».
Come giudichi oggi il tuo rapporto con il cinema?
«Quella del regista non è stata una vita facile, ma non la cambierei con nessun altro mestiere».
Quando dici non facile alludi anche alla delusione?
«Beh, non sarò proprio un narcisone, ma non mi fa piacere che un film non incontri il gusto del pubblico e della critica».
Questo mi pare è accaduto con “Tempo di uccidere”, tratto dal romanzo di Ennio Flaiano.
«Sì ed è stato un dramma per me, per le aspettative che avevo riversato sul romanzo, per quello che avevo in testa. Andò tutto storto: i luoghi dove girare, gli attori, il senso di frustrazione. Oltretutto, venivo da un film che ho molto amato: Gli occhiali d’oro ».
Effettivamente quel film, tratto da un racconto di Bassani, era un piccolo gioiello
«Così va il mondo. Toppai quello successivo. E la cosa mi gettò in un malumore talmente forte da farmi decidere che per anni non avrei più girato un film».
Conosco molti permalosi, ma è la prima volta che vedo uno permaloso verso se stesso.
«Non ho un carattere facile. Anche Vera me lo dice. Ma in fondo pensa che noia se avessimo passato sessant’anni insieme senza uno screzio».