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 2021  maggio 29 Sabato calendario

Veronica Roth: «Scrivere è sognare il futuro»

«Finché abbiamo un futuro, c’è bisogno di immaginare quel futuro e poi di reimmaginarlo di nuovo. Questo fa uno scrittore di fantascienza, ed è quello che farò finché scrivo». Aveva solo 22 anni, era ancora al college, Veronica Roth quando, nel 2011, si è fatta conoscere con Divergent, il primo capitolo di una saga fantasy che in dieci anni ha venduto oltre 20 milioni di copie, 700mila in Italia, e che DeAgostini riporta ora in libreria, in un unico volume. Eppure aveva già le idee chiare, quando ci ha mostrato una Chicago del futuro divisa in cinque fazioni e una giovane protagonista costretta a scegliere e a lottare per quello in cui crede, anche se — ammette lei — «sono molto cambiata e pure la mia scrittura lo è. La mia costruzione del mondo è diventata più forte, più verosimile. E ho imparato la moderazione: non terminando per esempio i capitoli con grandi dichiarazioni drammatiche». Quello che non è cambiato è l’entusiasmo che i suoi romanzi — dopo Divergent ha scritto una nuova saga in due volumi Carve the Mark. I predestinati e, l’anno scorso,The Ones. La profezia dei prescelti — suscitano nei lettori di tutto il mondo. Anche dopo 10 anni.
Se lo aspettava un tale successo?
«Aspettarselo? Sarebbe stato assurdo! Ero pronta a metterci tutto il tempo necessario per diventare una scrittrice. È successo prima di quanto mi aspettassi, ma era qualcosa su cui stavo lavorando: ho iniziato a scrivere ogni giorno da quando avevo undici anni, ero un’avida lettrice. Leggevo sempre. Leggevo al tavolo della colazione, costringendo mia madre a dirmi che mi faceva male allo stomaco solo perché le parlassi almeno una volta al giorno, e persino sotto la doccia, tenendo il libro fuori dallo spruzzo per non bagnarlo: anche questa è un’arte! Harry Potter ha avuto un posto importante tra le mie letture. E amavo la fantascienza: ho letto, troppo giovane per capirlo, Dune di Frank Herbert. Penso però che molto del successo di Divergent sia dovuto a fattori diversi che si sono incontrati al momento giusto: dal particolare momento editoriale in cui i libri sono usciti al supporto dell’editore, alla portata degli adattamenti cinematografici».
Vuole dire che era il momento giusto per questo tipo di serie? Negli stessi anni del resto anche “Twilight” o “Hunger Games”, o “Shadowhunters”, hanno avuto molto successo…
«Certo non basta un buon marketing o un film a spingere un libro se la storia non regge! Divergent apre una porta sull’adolescenza, che i lettori continuano a trovare interessante perché vi si riconoscono. La storia di Tris racconta, esagerandola, l’uscita dall’adolescenza: il suo mondo improvvisamente si allarga, la sua vita cambia e lei deve decidere cosa fare di se stessa, cosa mantenere del sistema di valori della sua famiglia e cosa lasciar andare. E poi, dovrà mostrarsi alla sua famiglia per come è diventata nella speranza di essere accettata. Sono prove che ognuno affronta a un certo punto della vita.
Anche se il mondo è cambiato negli ultimi dieci anni, le emozioni che si provano crescendo sono le stesse».
Ma immaginare una serie fantasy ha ancora senso dopo la pandemia, ora che la realtà ha superato ogni immaginazione?
«La narrativa distopica è passata attraverso sconvolgimenti sociali di tanti tipi. Da Utopia di Tommaso Moro, che ne è un precursore nel 1516, a Il mondo nuovo di Huxley del 1931, stiamo parlando di un genere che ha attraversato epidemie, guerre mondiali, l’avvento della tv, dei cellulari, di internet… cambiamenti drammatici per la nostra società. Ma i racconti distopici sono importanti nei momenti buoni quanto in quelli cattivi. Ci rivelano tanto di noi, in modo poco lusinghiero ma necessario. Divergent lo fa forse più delicatamente di altri romanzi: è più una fantasia che una critica sociale incisiva, anche se a modo suo critica. Pensiamo che quel che stiamo vivendo non sia mai successo prima. Dovremmo ricordarci che abbiamo superato altre pandemie (in gran parte attraverso le vaccinazioni, quindi: vaccinatevi quando potete, tutti!). Forse il mondo non sembrava distopico durante la Seconda guerra mondiale? La caduta del Muro di Berlino non sembra uscita da un romanzo distopico? Significa che c’è sempre spazio per le storie, per l’immaginazione, per la critica sociale attraverso la fiction».
A proposito di immaginazione: quanto di lei invece mette nei suoi personaggi?
«Di più e di meno di quanto i lettori sospettino! Scrivo di donne che sono più dure di me, o meno socievoli, o più capaci di usare la violenza. Detto questo, ci sono parti di me che trovano strada nei miei personaggi.
Per esempio, condivido l’impegno di Tris nel capire cosa è giusto, e lei è dura con se stessa quanto lo sono io.
Ovviamente le mie protagoniste vivono situazioni più estreme, ma prendo un piccolo granello di verità dalla mia vita, lo pianto in loro e lo lascio crescere. E per gli antagonisti esagero le mie qualità peggiori!».
Ha visto i film tratti dai suoi libri?
Vi si riconosce?
«Certo che li ho visti! Ero spesso sul set durante le riprese del primo e mi sento fortunata ad aver potuto dare una sbirciata dietro le quinte. È stato stranissimo camminare sul set e riconoscere pezzi dei libri: a volte era proprio come li avevo immaginati, a volte interpretazioni diverse, man mano che la serie andava avanti c’erano più deviazioni dal materiale di partenza. Gli attori poi hanno fatto un lavoro meraviglioso nel catturare i personaggi: ammiro molto Shailene Woodley che interpreta Tris».
Come è cambiato il rapporto con i lettori: riceve ancora molta posta?
«Tantissima: più email, ma ce ne sono ancora parecchi che scrivono lettere.
Mi chiedono di spiegare alcuni punti o cosa è successo ai personaggi dopo la fine della storia. E io non sono in grado di rispondere! Per me, la storia si ferma dove finisce il libro. Ciò che amo di più è quando scrive chi non ha letto Divergent ma mi ha conosciuto con gli altri romanzi, perché vuol dire che la mia carriera sta andando avanti: non sono la stessa scrittrice di quando avevo ventidue anni e significa molto per me quando i lettori lo riconoscono».
E come hanno preso l’epilogo della saga?
«All’inizio è stato uno choc, eppure pensavo sarebbe stato prevedibile.
Ero così stressata nei mesi precedenti l’uscita che avevo accennato troppo, rivelato troppo, e pensavo avrebbero indovinato il finale. Ovviamente mi sbagliavo, ma avevo pianificato quel finale dal primo libro. La reazione è stata piuttosto forte perché quando il terzo libro stava per uscire i lettori erano molto più numerosi di quando ho iniziato. Un finale triste rende la gente triste, te lo aspetti, ma non credo fossi davvero preparata. Ho ricevuto persino delle minacce! Ma poche settimane dopo, mi è arrivata la lettera di una giovane donna che aveva perso un genitore un anno prima e mi ha ringraziato per aver esplorato il dolore e la perdita in un modo che rifletteva la sua esperienza. In seguito, ho ricevuto altri messaggi come questo. Quelli sono i momenti che mi rimangono impressi, dieci anni dopo».