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 2021  maggio 29 Sabato calendario

Intervista a Svetlana Aleksievich

Dimentica facilmente tutto il male che gli capita». Premio Nobel per la letteratura, la giornalista-scrittrice bielorussa 73enne Svetlana Aleksievich ha raccontato le donne soldato nella Seconda guerra mondiale (La guerra non ha un volto di donna), gli “ultimi testimoni” dell’invasione nazista in Bielorussia, i “ragazzi di zinco” che combatterono in Afghanistan, il disastro di Chernobyl e i protagonisti del dramma collettivo del disfacimentodell’Urss (Incantati dalla morte e Tempo di seconda mano). Conosce bene l’ostinazione cieca dei reduci e sopravvissuti, la resilienza dell’animo umano di fronte ai tragici sconvolgimenti della storia e della natura, la capacità di aggrapparsi alla vita che resiste dopo essere stati testimoni dell’orrore. «Questa felicità di esser vivi dopo la pandemia, di tornare a vedersi dopo l’isolamento forzato, è un sentimento bello», commenta via Zoom in vista della sua partecipazione come madrina all’In Movie Fest, il festival d’arte cinematografica che si terrà dal 24 agosto al 2 settembre in Abruzzo, Marche e Molise.
Dopo mesi di appuntamenti virtuali, riprendono gli eventi in presenza. Come celebrare questa ripartenza dopo così tanto lutto?
«Fa piacere riprendere la vita di prima. I reduci della Seconda guerra mondiale mi hanno raccontato che cosa si provava ad andare in battaglia in centinaia e a sopravvivere in una scarsa decina. E di come si abbracciassero, di quanto fossero felici, con le lacrime agli occhi, di essere rimasti vivi».
Si usa spesso il linguaggio bellico quando si parla del virus. È giusto paragonare la pandemia a una guerra?
«Ne L’eco terrestre delle tempeste solari il nostro filosofo Aleksander Cizhevskij scrive che quello che succede sul Sole ha un effetto sull’umanità. Non provoca solo fenomeni naturali, ma anche rivoluzioni e guerre. Per quanto capisco, la pandemia è un evento naturale incontrollabile che si ripercuote sugli esseri umani, un processo che per ora non riusciamo ad arrestare. Vaccini e farmaci sono solo i primi tentativi di opporre resistenza. Ma siamo entrati nell’epoca della pandemia: saremo costretti a vivere tempi nuovi».
Il nuovo mondo post-pandemico sarà davvero diverso? Che cosa sarà più insopportabile? Che la vita riprenda come prima o che nulla sarà più come prima?
«Il mio Paese, la Bielorussia, fu il più colpito dal disastro di Chernobyl. L’umanità non aveva mai affrontato simili scenari apocalittici. Credevamo che ne saremmo usciti diversi, che l’avremmo ricordato, che non ci sarebbe mai stata un’altra centrale atomica. Invece, passati trent’anni, le autorità hanno costruito un impianto nucleare sul nostro territorio. Non è ancora entrato in attività: non appena lo mettono in moto, lo spengono perché è pericoloso. La gente non controlla più la provenienza del cibo. Mangia carne di animali che pascolano nella “zona di alienazione”, patate che sono state piantate in quel terreno contaminato. L’uomo è fatto così. Dimentica».
Ne usciremo migliori, più pronti all’empatia? O, come ci insegna la storia, c’è il rischio di uscirne peggiori?
«Il giorno che finì la Seconda guerra mondiale, lo racconto ne La guerra non ha un volto di donna, i soldati spararono in aria consumando tutte le cartucce dei fucili e tutti i proiettili d’artiglieria. L’uomo che me lo raccontò mi disse che, se il giorno dopo fosse stato necessario andare in battaglia, non sarebbero stati in grado di farlo perché avevano esaurito le munizioni. Lo fecero perché pensavano che, dopo quello che era successo, non avrebbero mai più dovuto combattere una guerra. È passato oltre mezzo secolo e invece vediamo sempre le stesse scene: bambini sventurati, civili ammazzati, edifici distrutti... È allucinante che la natura umana si adatti così facilmente a tutto. Certi eventi, come l’Olocausto, non dovrebbero ripetersi mai più. Ma passa il tempo e l’uomo ricomincia. Bene e male sono in continua lotta tra loro».
“Ex malo bonum”, “Dal male può venire il bene”, argomentava Sant’Agostino… Quale bene tireremo fuori da questo tempo?
«Compreremo meno beni materiali. Apprezzeremo di più la solitudine, il panorama di un giardino in fiore o un libro. Persino gli appuntamenti su Zoom, parlare e ridere insieme agli amici. Abbiamo capito quanto fosse triste non poter vedere i genitori o i figli. Le piccolezze umane sono diventate più grandi. Le minuzie che prima si davano per scontate o per le quali ci mancava sempre il tempo. Tenere la mamma per la mano, starle seduti accanto, guardare i bimbi che giocano, ascoltare musica. Abbiamo imparato tanto, ma mi rincresce che il prezzo sia stato così alto».
Copriamo ogni orifizio del nostro corpo con mascherine, guanti, visiere e igienizzanti. La paura strisciante dell’altro passerà?
«La pandemia è stata una storia molto triste. Ci siamo tutti chiusi nelle nostre caverne, nel nostro guscio. Sono stati ripristinati i confini. Non scorderò mai di come, i primi tempi, in un supermercato, le persone si allontanassero di corsa l’una dall’altra.
Questa paura dell’uno nei confronti dell’altro è stata la cosa più spaventosa.
Spero tanto che rimanga nel passato».
Ci saranno governi che sfrutteranno questa paura? Magari chiudendo le frontiere, aumentando la sorveglianza, limitando le libertà?
«La natura della pandemia è autoritaria di per sé. La forma dell’esistenza e sopravvivenza umana in queste condizioni è sempre di carattere autoritario. In che modo la democrazia riuscirà a preservare le libertà individuali è un tema su cui saremo costretti a ragionare nel prossimo futuro».
Che letteratura nascerà? Come racconterà questi eventi catastrofici e intangibili, globali e intimi?
«Scrittori e filosofi creeranno una nuova visione del mondo. Ci aspettano altre pandemie. Si stanno sciogliendo i ghiacci dell’Artico, nessuno sa quali e quanti virus nascondano. Quest’esperienza, psicologica, spirituale, quotidiana, è di valore inestimabile e deve essere documentata. Bisogna insegnare all’uomo come vivere in queste condizioni. La letteratura, per come la intendo io, deve insegnare all’uomo il coraggio di vivere».
Lei invece sta scrivendo un nuovo “romanzo di voci” sulla rivoluzione democratica in Bielorussia.
«Ci ho messo quasi quarant’anni a scrivere la storia dell’utopia rossa, dell’utopia comunista. Pensavo che fosse una storia conclusa, che stesse iniziando un’epoca completamente diversa. Ma quello che sta accadendo ora in Bielorussia e in Russia è il sintomo che il comunismo non è morto. Sta tornando a darci l’ultima battaglia. Non credo che vincerà, non è più al passo coi tempi, ma influenzerà notevolmente la vita di tante persone».