Da cosa siete partiti?
«Quando abbiamo deciso di fare il film ci era chiaro che non sapevamo cosa ci stesse succedendo. Questa domanda sul fronte dei sentimenti era terrorizzante: un conto è vivere con chi ami per scelta, altro è esserci costretto. Ci siamo resi conto che questa prigionia è stata per noi di una naturalezza assoluta. Nell’ultimo ventennio l’uso esasperato dei social e una serie di attentati nel mondo ci hanno abituato a stare chiusi in casa. Cosa siamo diventati? È la domanda da cui partono le storie del film».
Eravate sparsi per l’Italia.
«Sì. Io a Roma, il direttore della fotografia a Torino, la segretaria di edizione a Fano, le costumiste a Modena, il fonico a L’Aquila. Abbiamo creato un ambiente virtuale in cui far funzionare il gioco scenico. Un modo per dire no al distanziamento sociale».
Il film poggia sugli attori.
«Sì. Abbiamo sviluppato con loro le storie, vi si sono riconosciuti pienamente. La sensazione è stata di aprire al pubblico i loro segreti, i libri, i quadri, le foto, le pareti rovinate, il caos e la confusione degli oggetti. Questa caratteristica al cinema l’abbiamo persa. Negli anni 70 era usuale vedere nei film ambienti realistici, non curati, oggi il lavoro della scenografia è diventato quasi pittorico, le case che vediamo al cinema sono astratte. Quelle degli attori nel film sono concrete e questo fa parte del “gioco al massacro” che abbiamo messo in piedi. Gli attori si sono messi a nudo, rischiando fino in fondo. Si sono occupati anche di trucco, vestiti, suono, si sono inquadrati da soli».
Come hanno reagito alla proiezione organizzata per loro?
«La parola “strano” è continuata a ricorrere in tutti i modi».
E poi c’è la città, una Roma non monumentale.
«È stata filmata da Manuele Luppichini, che con il suo gruppo ha ripreso fin dall’inizio quel che è accaduto in città. Hanno uno sguardo laterale, liminale sulla città, non sono innamorati della monumentalità, volevano raccontare la città vera, policentrica, in cui vivono milioni di persone. Strade e palazzoni vuoti, gabbiani a far da padrone, clochard abbandonati. Mentre noi raccontavamo gli attori nelle case, Manolo e gli altri erano immersi nel fuori. Il loro è un lavoro di documentazione che racconta una sospensione di vita, il nostro una documentazione dei sentimenti».
Cosa dirà il pubblico?
«È un film che può piacere o no, ma che lo riguarda. La storia degli attori è quella degli spettatori, come nell’antichità gli attori si immolano per la collettività. Mi hanno detto che è “un’esperienza irripetibile che non faremo mai più”. Somiglia al teatro della crudeltà, gli esperimenti teatrali in cui gli attori si facevano anche male in scena».
Il lockdown ha cambiato il cinema?
«Ne sono convinto e lo vedremo nel tempo, perché è cambiata la percezione di noi stessi».
Il film come ha cambiato lei?
«Più lo vedo e più mi mette in discussione, come regista e come persona. La sensazione è che mentre nel cinema il linguaggio è codificato stavolta non lo è. Non so se questo linguaggio è ripetibile e questo può essere un difetto. Il giorno e la notte è un film vitale che un po’ mi spaventa, mi dice “sei sicuro che hai fatto tu il film? Che hai controllato fino in fondo ciò che facevate?”. Non so rispondere. Sto preparando un film, Orlando, storia su un uomo che nell’autunno dell’esistenza scopre di avere molte cose da vivere. Se lo avessi girato l’anno scorso sarebbe stato un altro film».
Cosa ci sta succedendo in questo momento?
«Quando abbiamo girato ci siamo detti “è una carezza al cinema”, che era bloccato. A rivederlo ora è molto più incisivo di così. Ci fa interrogare su come viviamo oggi, su tutto ciò che stiamo rimuovendo, soprattutto il dolore e il disamore: quando sei costretto a vivere con qualcuno sei costretto ad amarlo, quindi stiamo ignorando la nostra sincerità. È la tragicità della pandemia, perché altrimenti non riusciremmo a vivere il quotidiano. Queste erano le intenzioni di Il giorno e la notte, un film che vogliamo proteggere e regalare al pubblico come gesto di solidarietà».