la Repubblica, 29 maggio 2021
Il volo interrotto delle api
Se Rachel Carson pubblicasse oggi il suo libro Primavera silenziosa (1962), con cui inizia l’ecologia moderna, non citerebbe solo l’assenza del cinguettio degli uccellini nelle campagne, uccisi dagli insetticidi, ma parlerebbe di sicuro della moria delle api, che colpisce questo fondamentale insetto, di certo il più popolare e amato. Non produce infatti solo cera e miele, ma vola sui prati e sugge i fiori, e così l’impollina, come sanno oggi tutti gli scolari. Non a caso è anche uno degli animali più citati dai filosofi, a partire dalla Favola delle api di Bernard de Mandeville (1705), testo filosofico pubblicato all’alba della rivoluzione industriale, che Marx cita e confuta nel suo Il capitale.
All’inizio del XX secolo uno zoologo austriaco, Karl von Frisch, fino ad allora studioso dei pesci, scoprì che le api comunicano tra loro e possiedono un linguaggio specifico. Non fu subito creduto e dovette dimostrare praticamente a un collega inglese recatosi presso di lui come funzionava questa comunicazione. Per questo nel 1973 von Frisch ricevette il Premio Nobel per la Fisiologia e la Medicina, e da allora lo studio dei linguaggi animali ha fatto molti passi in avanti. Sino a quel punto si sapeva che gli insetti solitari si scambiano segnali, ma solo per la riproduzione. Gli animali sociali come le api appartengono a quello che Edward O. Wilson chiama “superorganismo”, ovvero sviluppano una serie di relazioni e comunicazioni il cui scopo è quello di mantenere coesa e duratura la loro struttura sociale. Sono società gerarchiche con al centro la Regina, che è la grande riproduttrice. Si è anche scoperto che le api non sono solo attivissime e dedite al lavoro, ma si riposano pure e che le operaie, le vere padrone dell’alveare, cominciano la loro carriera come spazzine, poi diventano nutrici delle larve, costruttrici di cellette e possono ambire ad essere, se brave, bottinatrici, per cercare il cibo fuori dall’alveare.
Nel 1927 von Frisch pubblicò un libro, Nel mondo delle api,dove descriveva il loro apparato visivo con coni per distinguere il giallo, il verde bluastro, il blu e l’ultravioletto, che noi non vediamo; vi illustrava come riuscissero a differenziare un cerchio da un quadrato o da un esagono. Dotate di antenne per odorare, possono plasticamente sentire gli odori, come noi plasticamente vediamo gli oggetti e colleghiamo sin dai primi anni le impressioni visive alle forme degli oggetti stessi.
Per cercare i fiori possiedono una mappa e un orologio mentale, e hanno il senso del trascorre del tempo, così da procurarsi almeno un’ora di riposo al giorno a testa. L’apicoltura è antichissima. Già in epoca preistorica gli esseri umani si dedicavano a questa attività per ottenere il prezioso miele, che fino alla comparsa dello zucchero di canna, era il principale dolcificante. I favi erano presenti sugli alberi e i nostri progenitori li hanno prelevati e addomesticati, in molti casi salvandoli dall’estinzione, cosa che bisogna fare adesso per via dell’inquinamento e il diffondersi di malattie che rischiano di sterminare questo prezioso insetto.
Un secolo fa nessuno avrebbe pensato di proteggere questo universo di piccole creature che non si percepiva essenziale per l’equilibrio ecologico della Terra. Ora è così. Forse le api non sono più l’emblema del risparmio, come accadeva negli anni Sessanta, quando nelle scuole elementari italiane si celebrava la giornata del risparmio e si distribuivano ai bambini salvadanai con l’immagine dell’ape e dell’alveare, ma restano, come sappiamo, fondamentali per impollinare fiori e frutti: ciò che è bello e ciò che è buono. Vi sembra poco?