la Repubblica, 29 maggio 2021
Incontro con la modella Marisa Berenson
Devono essere fischiate molto le orecchie a Marisa Berenson nelle ultime settimane, visto quanto s’è parlato di Halston, la serie Netflix sul designer simbolo della moda americana negli anni Settanta. «Gli attori sono perfetti, ma credo che ci si soffermi troppo sugli aspetti più scabrosi della sua storia. Halston per me era un fratello, è stato lui nel 1982 ad accompagnarmi all’altare per il mio secondo matrimonio con Aaron Richard Golub. Avrei voluto che si vedessero di più i suoi splendidi vestiti».
Non parla solo da amica: Marisa Berenson, all’anagrafe Vittoria Marisa Schiaparelli Berenson, è stata il volto dello stile di quegli anni, tanto da essere definita da Yves Saint Laurent “la ragazza degli anni Settanta”. Più che una top model, lei è un’icona, e per di più capace di passare con successo dai set fotografici al grande schermo. Un’impresa rara. Al momento è a Parigi, dove sta girando un film. «Prima c’è stata una serie televisiva, e poi ce ne sarà un’altra. Sono fortunata a lavorare tanto anche in questi mesi», riflette.
D’altronde, se a farti esordire è Luchino Visconti, significa che sai il fatto tuo. Era il 1971, e Marisa aveva 24 anni: era la modella più richiesta, ma sulla recitazione non era così ferrata. «Non so cosa Luchino abbia visto in me», dice lei del suo ruolo in Morte a Venezia. «Immagino che lui, e tutti quelli che mi hanno scritturato dopo, abbiano compreso che sono pronta a spingermi oltre i miei limiti». Visto che dopo Visconti sono arrivati in sequenza Bob Fosse con Cabaret e Stanley Kubrick con Barry Lyndon, il suo potenziale è subito chiaro. «Un paio d’anni fa ero a teatro in Berlin Kabarett, un musical in cui ho ballato e cantato. Ero terrorizzata dal palco, ma questo non mi ha mai fermato. Questione di priorità».
Merito, a suo dire, anche della ferrea educazione ricevuta nelle migliori scuole d’Europa dove il padre Robert, diplomatico e armatore, e la madre Gogo Schiaparelli l’hanno fatta studiare. Inutile dire che la moda non era contemplata nel suo futuro; il che è strambo, visto che sua nonna è Elsa Schiaparelli, la geniale stilista. «Lei non parlava mai del suo lavoro. Nemmeno una parola. Casa sua era frequentata da tipi come Salvador Dalí, ma ho capito il perché solo anni dopo». A stravolgere la vita ordinata di Marisa, ci pensa un’amica di famiglia: Diana Vreeland, leggendaria direttrice di Vogue. «Mi aveva conosciuto da bambina, e quando mi rivide a New York a un ballo assieme a mio padre, gli disse subito che doveva fotografarmi. Io avevo 16 anni, ero altissima e magrissima: mi vedevo strana, non bella».
Diana è di un altro parere, e Marisa a 17 anni si ritrova sola a NY. La sua carriera è fulminea, non c’è rivista o evento di moda che non cerchi d’ingaggiarla. È suo il primo, storico nudo sulle pagine di Vogue, fotografata da Irving Penn. È la musa della sua generazione, tanto che quando le si chiede di scegliere un designer preferito, si rifiuta. «Sono la mia famiglia, come potrei. C’era Halston, ma anche con Yves Saint Laurent il rapporto era strettissimo, e così pure con Valentino». L’abito per il suo primo matrimonio nel 1976 con James Randall, da cui ha avuto la figlia Starlite, è proprio del couturier italiano. Il fotografo alla festa di nozze era Andy Warhol. «E poi c’è Diane von Fürstenberg. Io e lei ci somigliamo tanto: mi ricordo quando in vacanza in Sardegna ci stiravamo i capelli sull’asse da stiro, col ferro». Drastiche. «Siamo entrambe ricce; o facevamo così, o dovevamo metterci il turbante. Che per inciso, so usare piuttosto bene: me lo ha insegnato lo Maharishi Mahesh Yogi (il guru dei Beatles, ndr) quando sono stata in India a studiare meditazione».
La meditazione, precisa, le ha permesso di non perdersi in quel mondo tanto sopra le righe, al contrario di molti attorno a lei. «Per parafrasare il Vangelo di Giovanni, io mi sento nel mondo, ma non del mondo. Vivo il mio tempo, ma non lo subisco». In realtà, all’epoca non aveva nemmeno idea dell’eccezionalità della sua vita. «Era il mio quotidiano, certo non pensavo a passare alla storia. Ma poi, chi è consapevole del suo presente?». Quindi, nessun rimpianto. «Io no. Penso che siano gli altri ad avere nostalgia del mio passato».