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 2021  maggio 28 Venerdì calendario

A Parigi una mostra sui jeans

Non tutto quello che è blu è jeans. Ma quasi. Basta aggirarsi per la mostra allestita fino a gennaio alla Villette a Parigi (sì, i blue jeans meritano ampiamente una retrospettiva al museo), per farsi un’idea delle proporzioni del fenomeno: un secolo e mezzo di storia, 2,3 miliardi di paia venduti ogni anno sulla Terra, icona proletaria, cinematografica, rock, hippy, punk, rap, oggetto di moda bassa, media e alta, comune a star, sovrani e semplici mortali, primo indumento in assoluto a fasciare le natiche di uomini e donne, tessuto vivo, che invecchia con chi lo indossa, riproducendone usure ed esuberanze, ma anche, purtroppo, le scelleratezze. L’abito più indossato al mondo è infatti questo spiega soprattutto la mostra Jean (in francese la parola è al singolare) anche il più inquinante.

LA DIVISA
Non dispiaccia ai ragazzi di Woodstock, che ne fecero un’uniforme della contestazione, né ai pionieri costruttori dei grattacieli di New York, che lo resero la divisa della classe operaia, i jeans sono oggi vittima del successo planetario: poco equi e solidali, simbolo di un iper-consumismo sfrenato, di una moda usa e getta, variante tessile dei fast-food. Per diventare belli, usati, alternativi, i jeans consumano quantità «immense» di acqua, la tela, inconfondibile, è di cotone, con annesse, vaste, culture intensive e uso di pesticidi, senza parlare del colore, quel blu scuro delle origini (che secondo la leggenda erano le tende degli accampamenti dei cercatori d’oro in California), che ormai si riproduce con tecniche anche queste altamente inquinanti: fabbricare un chilo di indaco sintetico richiede una tonnellata di petrolio, 9 chili di solventi e mille litri d’acqua. Poi si arriva alla confezione (almeno 30 pezzi da cucire insieme) ancora delocalizzata in paesi come Cina, India o Bangladesh, con condizioni di lavoro molto distanti dai diritti dei lavoratori.
Ma attenzione, un jeans pulito, all’altezza della sua storia, è possibile: questo ci insegna la mostra di Parigi, che come tutti gli eventi organizzati alla Cité de l’Industrie alla Villette mette l’accento soprattutto sugli aspetti tecnici e tecnologici. Al visitatore (possibili anche visite commentate online, da giugno ogni giovedì), viene ricordato che negli anni ’60 furono i creatori francesi Marithé e François Girbaud a mettere a punto il processo di stone wash per invecchiare e dare carattere al jeans: un lavaggio con pietra pomice in macchine industriali. Il processo «si è rivelato una catastrofe ecologica, soprattutto a causa delle enormi quantità di acqua necessarie» spiega oggi Sophie Lecuyer, curatrice della mostra parigina. Per riscattarsi la stessa maison francese è all’origine di un nuovo processo di trattamento via laser (il Wattwash, dal 2010), sempre più utilizzato e che consente anche di tatuare il denim.

RIVISITAZIONI
Quasi 150 anni dopo essere stati brevettati dal sarto Jacob Davis e dal fabbricante di tessuti di San Francisco Levi Strauss (era il 1873) e 45 anni dopo la prima apparizione su una passerella (fu Calvin Klein) i jeans sfidano le epoche, i gusti e le classi sociali. È notizia di stagione la collaborazione di Levi’s con Miu Miu per una rivisitazione lusso-poetica dei 501 e del classicissimo giacchetto Trucker: fiori, perle e cristalli ricamati a mano fioriscono sui capi in jeans, tutti rigorosamente riciclati. La tendenza all’upcycling, a prendere l’usato per arricchirlo, che ha ormai contagiato l’alta moda (tra tanti anche Maison Margiela e Coach) si adatta particolarmente bene al jeans. Non a caso Levi’s ha già sperimentato l’operazione con Valentino, che ha ridato nuova vita agli extra-iconici 517 bootcut, sempre rigorosamente d’annata.
Sorprendentemente moderni appaiono al visitatore della retrospettiva di Parigi, le giacche e i pantaloni indossati dai lavoratori della miniera Gold Coin a Victor nel Colorado (fine 800) hanno già tutto quello che piace ancora oggi: le cinque tasche, la vita bassa, la gamba larga, una linea minimal. Emoziona come un reperto archeologico l’unica gamba rimasta di un jeans sfilacciato, con la doppia cucitura, un blu quasi perfetto: è stato ritrovato in una miniera del Nevada e sarebbe precedente al brevetto Levi’s del 1873, quindi uno dei più antichi jeans al mondo. Quel primo pantalone ha già tutto quello che fece dire, nel 1983 a Yves Saint-Laurent: «Non ho che un solo e unico rimpianto: non aver inventato i jeans. Hanno carattere, modestia, sex-appeal, semplicità, tutto quello che vorrei avessero gli abiti che creo».