Corriere della Sera, 28 maggio 2021
Biografia di Antonio Pasquale raccontata da lui stesso
Dice di aver imparato il culto del lavoro dalla zia Maria Pasquale, morta il mese scorso dopo aver superato il secolo di vita. «Studiò medicina di nascosto, conseguì due lauree e divenne primario di pediatria negli ospedali di Vittorio Veneto e Cittadella. A 87 anni, e con un rene solo, andò nel dispensario di Sirima, in Kenya, due giorni di aereo e uno di jeep su strade sterrate, a 2.000 metri di quota». Arrivato a 88, lui, Antonio Pasquale, il nipote, resta il patriarca della Kmv (Karlovarské minerální vody) e del marchio Mattoni 1873, leader delle acque minerali e delle bevande analcoliche nell’Europa centrale con le bottiglie disegnate da Pininfarina, 3.350 dipendenti, 11 stabilimenti, 587 milioni di euro fatturati nel 2020, anche se ha passato lo scettro al figlio Alessandro: «Adesso sono consigliere. Poco ascoltato. Però ogni mattina controllo i grafici delle vendite». Non ha mai dato interviste a giornali italiani, e non solo perché ha lasciato il nostro Paese e preso casa a Praga per stare più vicino alla capitale del suo impero, Karlovy Vary (in tedesco Karl- sbad), la città termale della Repubblica Ceca dove andavano a passare le acque Goethe, Beethoven, Mozart, Paganini, Chopin, Casanova, Dostoevskij, Gogol‘, Marx e Freud. È che Pasquale incarna la riservatezza fatta persona e ha chiuso con l’Italia da quando vendette a Nestlé il proprio gioiello, quell’Acqua Vera con cui 30 anni fa sponsorizzava «Varietà» di Pippo Baudo e «Scommettiamo che...?» di Fabrizio Frizzi su Rai 1. «Faccio un’eccezione solo perché lei è veneto come me, cussì ciacolèmo in dialèto».
Credevo che fosse pugliese.
«Lo era mio nonno Antonio. Sul porto di Bisceglie c’è ancora la sua casa. Invece di andare a scuola, preferiva nuotare in mare e a mezzodì la madre era costretta a leccargli un braccio per scoprire se sapeva di sale. Mio bisnonno Angelo, con il proprio veliero Angela Maria, trasportava olio, vini, fichi e mandorle dalla Puglia a Venezia. Un giorno si portò appresso questo figlio discolo, che rimase per sempre in Veneto e si sposò con Santina Berto. Ebbero tre femmine e un maschio, Angelo. Mio padre. Sono il primo dei sei figli nati a Cittadella dal suo matrimonio con Maria Collavo».
Mi dicono che lei sia astemio.
«Lo ero. Siccome sono un po’ anemico, mia moglie insiste per farmi bere qualche mezzo bicchiere di rosso. Prima mi limitavo ad assaggiare e a sputare».
A sputare?
«Come fanno i sommelier. Nel 1948 mio padre preferì dare in affitto l’azienda di Cittadella e portare la famiglia a Trapani. Commerciavamo i vini siciliani nel Nord Italia e in Francia. Avevamo una cantina a Pantelleria che forniva il mosto non fermentato ai piemontesi per il moscato d’Asti».
Come si convertì all’acqua minerale?
«Nel 1959, scaduto il contratto d’affitto, papà mi affidò la ditta di Cittadella, con un capitale di 100 milioni a prestito. Però a me vendere vino, birra e bibite a bar e ristoranti non piaceva. Dopo pochi anni avevo già restituito i 100 milioni. Deciso a costruire una nuova sede, mi rivolsi al professor Umberto Carretta, idrogeologo dell’Università di Padova. Gli chiesi d’indicarmi un terreno ricco di risorgive. Ne individuò uno a San Giorgio in Bosco, di proprietà della marchesa Cittadella Vigodarzere, dal quale subito scaturì l’acqua. E così nel 1975, con i miei fratelli Roberto e Lino, creai il marchio Vera e presi a imbottigliarla nel vetro. Ma la rivoluzione avvenne qualche anno dopo, quando dall’America importai il Pet, utilizzato solo dalla Coca-Cola. Qui da noi erano fermi alle bottiglie in Pvc, che però non potevano contenere l’acqua gasata».
Bastò il packaging per farla decollare?
«Eh, magari! Serviva la pubblicità. M’indirizzarono a Publitalia. Fui ricevuto da Marcello Dell’Utri. Gli esposi il problema: ho tante idee, ma pochi schei. Risposta: “Può fermarsi a Milano fino alle 19?”. Certo. Quella sera stessa mi portò ad Arcore, da Silvio Berlusconi. Anche a lui ripetei il ritornello. E il Cavaliere: “Non c’è problema. Lei mi porti i bilanci dell’Acqua Vera e io le regalo gli spot su Canale 5 per un anno. Se la campagna pubblicitaria andrà bene, me li pagherà in base all’aumento del fatturato”. Così fu. Da 20 miliardi di lire passai a 100 in un solo biennio. Alla fine ero arrivato a 360».
Operazione Rischio, la chiamò il Cav.
«A Berlusconi devo eterna riconoscenza. Però quando scese in campo con Forza Italia, declinai il suo invito a schierarmi. No vojo smissiarme co’ la politica».
Comunque lei non ricorse solo alla tv. S’inventò pure «Le giornate Vera».
«L’idea me la diede Marco Mignani, il pubblicitario dello slogan “Milano da bere”. Bastò ispirarsi al forum di Cernobbio dello studio Ambrosetti e portare per tre giorni a Venezia personaggi come il generale Norman Schwarzkopf, reduce dalla Guerra del Golfo, e Franco Modigliani, premio Nobel per l’economia».
Con una spruzzata d’intrattenimento.
«Arruolai un po’ tutti, da Renzo Arbore a Ornella Vanoni. Affittai il teatro La Fenice per un recital di Luciano Pavarotti».
Chissà che cachet.
«Il tenore pretese che sponsorizzassi persino i suoi cavalli: 150 milioni di lire».
Perché vendette Acqua Vera a Nestlé?
«Rilegga Il Padrino di Mario Puzo: “Gli farò un’offerta che non potrà rifiutare”».
Presumo che non voglia dirmi la cifra.
«Bravo. Ma già nel 1978 avevo lasciato Cittadella e mi ero trasferito a Lugano con la famiglia. L’Italia aveva da poco evitato il sorpasso del Pci sulla Dc. In Veneto infuriavano i rapimenti: Marchiorello, Montesi, Finco, Pasti, Bernardi, Comper. Il toso di Candido Celadon tornò dall’Aspromonte dopo 831 giorni di prigionia: alto 1 metro e 80, s’era ridotto a 48 chili di peso. Gianfranco Lovati Cottini fu ritrovato carbonizzato nel bagagliaio di un’auto».
In che anno arrivò in Cecoslovacchia?
«Nel 1990. L’anno prima era caduto il Muro di Berlino. Mi dissi: andiamo a vedere, ci sarà tutto da ricostruire come in Italia nel 1945. Mi recai a Varsavia: non mi piacquero i polacchi. Poi in Ungheria, a Budapest: troppa confusione. Praga mi rapì il cuore, anche se era fuligginosa e rassegnata. La gente non rideva».
E che fece?
«Al ristorante mi servivano un’acqua dal nome italiano. L’aveva fondata nel 1873 un immigrato, Heinrich Mattoni, originario di Tremezzo, nel Comasco. Ai tempi dell’Impero austroungarico, suo nonno era arrivato a Karlovy Vary con un carro botte: la mattina faceva il giro degli alberghi e raccoglieva la pipì dai pitali».
L’idrica era nel genoma di famiglia.
«Il nipote Heinrich riforniva la casa regnante austriaca e divenne grande amico dell’imperatrice Sissi. La Mattoni 1873 è deliziosa, come tutte le acque che sgorgano dal massiccio vulcanico della città ceca. La prima sorgente fu valorizzata dall’imperatore Carlo IV di Lussemburgo nel 1370. Oggi se ne contano un’ottantina, 40 delle quali sono mie».
Come fece ad assicurarsele?
«Con le privatizzazioni decise dal governo. Misi sul tavolo 85 milioni di corone e comprai subito il 55 per cento. Poi un altro 20. Il restante 25 era detenuto da 36.000 azionisti. Alla prima assemblea affittai lo stadio dell’hockey di Karlovy Vary: si presentarono in 30. Per quella successiva scelsi un cinema. Al terzo anno avevo capito: bastò il mio ufficio».
E li convinse a mollare l’osso.
«Doveva essere un giocattolo per la vecchiaia. La domenica, dopo pranzo, partivo in auto da Lugano e andavo a Karlovy Vary, più di 700 chilometri. Percorso inverso alle 16 del venerdì. Dieci anni di avanti e indrè. Gli impianti avevano buche del diametro di mezzo metro nel pavimento, piene d’acqua. Il personale lavorava in piedi sulle casse di legno per non bagnarsi le scarpe. Dallo stabilimento uscivano 30 milioni di bottiglie, come nel 1910, quando morì Mattoni».
E oggi?
«Siamo arrivati a 1,8 miliardi l’anno. Per festeggiare, ho fatto sagomare in alluminio 50 aquile, il simbolo di Mattoni 1873. Sculture alte come palazzi di cinque piani, piazzate sulle colline, a imitazione dei tori di Osborne in Spagna. Installata la prima, i dipendenti dello stabilimento di Kyselka, molto ossequiosi, come nello stile ceco, si sono rivolti a me dicendomi: “Illustre signor presidente, siamo lieti di annunciarle che da oggi lei ha il più grande uccello della Repubblica Ceca”. Non ho ancora capito se scherzavano o parlavano seriamente».
Oltre ai cechi, chi disseta?
«Siamo leader di mercato in Austria, Ungheria, Slovacchia, Serbia, Bulgaria e altri Paesi dell’Europa centrale e balcanica. Mio figlio s’è messo in testa di rifare l’Impero austroungarico delle acque».
Solo acque?
«In realtà, accanto alle minerali Mattoni 1873, Magnesia, Szentkirályi, Waldquelle e Knjaz Miloš, produciamo 56 etichette di succhi e tè. Ma imbottigliamo anche un’altra trentina di marchi, fra cui Pepsi, Perrier, Lipton, Schweppes, Lay’s, Gatorade, Mirinda, 7 Up».
Perché queste aziende scelgono voi?
«Usiamo solo contenitori in Pet, al 100 per cento riciclabili. In Slovacchia siamo stati i primi a introdurre lo stesso metodo del vetro cauzionato: paghiamo chi ci riporta il vuoto di plastica. Lo sa che una tonnellata di Pet usato vale 1.000 euro? Gli enti che curano la raccolta differenziata e i riciclatori che lo vendono all’industria automobilistica sono una lobby. La Cina spaccia per riciclato il Pet vergine perché ci guadagna di più. Una follia».
Ha mai pensato di ricomprarsi l’Acqua Vera, quando Nestlé l’ha ceduta?
«No, il passato è passato. Un po’ mi piange il cuore, perché il personale veneto è unico al mondo. Ma in Italia ci sono circa 300 fonti e 200 aziende imbottigliatrici. Che ci sarei tornato a fare?».