il venerdì, 28 maggio 2021
L’abitudine ci trasforma in automi
Quando cambiamo le marce dell’auto, ci laviamo i denti, chiudiamo la porta di casa o accendiamo una sigaretta, più che a creature senzienti somigliamo a un pupazzo meccanico, caricato a molla: a governare tutte queste azioni non è infatti la stessa parte del cervello che usiamo per riflettere o decidere di compiere movimenti al di fuori della routine, ma un’area specializzata negli automatismi. È anche per questo che a volte ci vengono dubbi come: “Avrò chiuso a chiave la porta?”. Se commettiamo un errore nello svolgimento di un’azione di routine, il cervello cosciente non lo registra subito: le abitudini non sono di sua competenza.
Capire i meccanismi che regolano le abitudini può aiutarci a non diventarne schiavi o, al contrario, a rendere automatici comportamenti che riteniamo virtuosi: lo spiega nel saggio Hard to Break (Difficile da interrompere, Princeton University Press) Russell Poldrack, neuroscienziato che dirige il Center for Reproducible Neuroscience dell’Università di Stanford e nei suoi studi indaga sull’autocontrollo, la memoria e, appunto, le abitudini. “Le azioni che mutano di giorno in giorno, come la ricerca del posto in cui parcheggiamo l’auto, sono gestite dalla corteccia frontale, ovvero dalla parte del cervello preposta a pianificare e riflettere” dice Poldrack. “Invece le azioni che non cambiano vengono trasferite dalla corteccia frontale, che ha un alto consumo energetico, a un’altra regione più interna, lo striato, dove vengono compattate in un tutt’uno più efficiente” spiega Poldrack. Così potremo eseguirle anche senza riflettere: dopo un po’ di pratica di guida, per esempio, non pensiamo più “prima di cambiare marcia devo premere la frizione”, lo facciamo e basta. Questo meccanismo ha un vantaggio pratico: “Se dovessimo riflettere su ogni singola azione, anche la più banale e ripetitiva, avremmo meno risorse mentali per fronteggiare situazioni nuove o impegnative”.
Il pilota del Pleistocene
Insomma l’evoluzione ci ha dotati di una sorta di pilota automatico, assai prezioso in un mondo stabile come quello del Pleistocene, ma a forte rischio di “dirottamento” di fronte a realtà odierne, come i cibi ultraprocessati, le sigarette, le droghe o il gioco d’azzardo, studiate apposta per diventare abitudini. “Il modo in cui automatizziamo i comportamenti è anche la ragione per cui, una volta presa una cattiva abitudine, questa prevale sulla volontà ed è così difficile liberarsene” dice Poldrack. Alla radice di questo meccanismo c’è la dopamina, sostanza chimica che amplifica gli impulsi trasmessi tra i neuroni, e quindi facilita il loro attivarsi insieme. Poiché i neuroni che si attivano insieme rinsaldano il loro legame, quando compiamo un’azione che ha come risultato il rilascio di dopamina, per esempio mangiamo un bignè alla crema, la sequenza di azioni legate a quel risultato – come guardare la bacheca dei dolci del bar ed estrarne una pasta – per via del rafforzamento tra i circuiti neuronali, si scolpisce più saldamente nel nostro cervello.
"Il rilascio di dopamina fa sì che le azioni appena compiute vengano registrate come importanti, così che sia più probabile ripeterle in futuro” sottolinea Poldrack. “Dolci, droghe, gioco d’azzardo e uso intenso dei social network provocano questo effetto, e questa è la ragione per cui possiamo diventarne schiavi”. Ed è sempre la dopamina il motivo per cui, al contrario, le buone abitudini faticano ad attecchire: “Il jogging, la moderazione a tavola o la parsimonia non provocano un rilascio di dopamina paragonabile a quello dei “vizi": per questo è più difficile che questi comportamenti si scolpiscano nel cervello diventando automatici. Un problema delle buone abitudini è che la ricompensa che ci danno di solito arriva nel futuro. E gli esseri umani hanno difficoltà a focalizzarsi su benefici futuri per giustificare sacrifici fatti nel presente”.
Premiarsi fa bene
E allora come si fa a creare delle buone abitudini? Un valido stratagemma è quello di premiarsi: “Per esempio concedendosi un gelato se si raggiunge l’obiettivo settimanale di tot chilometri percorsi correndo” spiega Poldrack. Ma funziona anche creare un contesto da associare all’azione che si vuole far diventare un’abitudine, in modo da trasferire il controllo dalla volontà al contesto. “Per condizionarsi a fare sport al mattino, si possono mettere le scarpe da jogging in bella evidenza nella stanza, in modo che al risveglio non si possa fare a meno di notarle”.
C’è anche un altro sistema che la letteratura scientifica considera piuttosto efficace: “Se vuoi smettere di fumare, devi elencare le situazioni in cui potresti essere tentato di accendere una sigaretta e stabilire a priori come reagire in quelle specifiche circostanze. Più il piano è specifico, maggiori sono le probabilità di successo. Così, invece di pensare “se qualcuno mi offre una sigaretta, devo dire no”, un fumatore dovrebbe pensare a tutte le possibili tentazioni e a come gestirle. Per esempio: “Se la mia amica Tina mi offre una sigaretta, prima ricorderò a me stesso che devo proteggere i miei polmoni e poi dirò a Tina che apprezzo la sua offerta ma sto cercando di trattenermi per un anno dal fumare”.
Specificità è la parola d’ordine. Gli effetti di questa strategia sono due: anzitutto, dopo un po’ di ripetizioni si rinsalda un’associazione mentale tra la precondizione (ad esempio “Se sono a casa e sono le 19...") e l’azione virtuosa (”...faccio un’ora di cyclette prima di cena"). Durante la giornata il cervello monitorerà l’ambiente per vedere se si verifica la condizione “sono le 19” e, in quel momento, la seconda parte del piano scatterà senza sforzo. Secondo una meta-analisi dello psicologo Peter Gollwitzer, che comprende i risultati di 94 studi, questo approccio si è rivelato più efficace di altri nel favorire una serie di abitudini, a partire dall’uso dei mezzi pubblici.
Fin qui la vita ordinaria. Ma che ne sarà, per esempio, dei nuovi comportamenti acquisiti durante il Covid? Non ci resterà il retropensiero che sia pericoloso uscire senza mascherina? Ci libereremo dalla tendenza a evitare la vita sociale? Per non parlare di nuovi usi non proprio lodevoli, come quello riportato dal New York Times nell’articolo Vedi meno gente, fai meno docce: “Diverse persone dicono che durante la pandemia hanno iniziato a lavarsi di meno. E sostengono che, a meno che qualcuno non si lamenti, intendono conservare la nuova abitudine”.
L’eredità della pandemia
Credo che molte delle abitudini acquisite in questo periodo spariranno rapidamente, perché non saranno più presenti gli stimoli che le innescano” risponde Poldrack. “Non ci sentiremo più condizionati a indossare la mascherina, anche perché non ne avremo più una sempre in evidenza sulla mensola e quindi ci mancherà l’innesco. Altre consuetudini – più legate all’emotività, come il rigetto di fronte all’eccessiva vicinanza fisica degli altri – potrebbero in effetti resistere un po’ più a lungo. Ma poi comunque svaniranno, perché l’abitudine ad abbracciare gli amici o a conversare da vicino è ben più antica e salda, e riprenderà il posto di quelle temporanee indotte dal Covid”.