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 2021  maggio 28 Venerdì calendario

Intervista a Noel Gallagher

Con quel taglio di luce e il viso leggermente deformato dalla videocamera di Zoom troppo vicina, Noel Gallagher sembra il gemello di Liam. "È la prima intervista dall’inizio della pandemia" esclama, "benvenuta Italia!". E subito capisci che l’indole e l’attitudine non sono quelle del fratello che lasciò a piedi quel 28 agosto 2009 a Parigi, quando, dopo un violento alterco, rifiutò di salire sul palco e pose fine agli Oasis, uno dei più potenti fenomeni rock post-Beatles. Noel è rilassato, positivo, ha voglia di musica: meglio un successo costante che una frustata di notorietà che solleva solo polvere.
È quel che ha dimostrato con gli High Flying Birds, la band che da allora lo sostiene. L’uscita, l’11 giugno, dell’antologia (con due inediti) Back the Way We Came, Vol. 1 (2011-2021) è la celebrazione di questi dieci anni in cui la vita dell’ex proletario di Manchester dall’infanzia problematica e dall’adolescenza turbolenta ha preso le distanze dalla follia del rock’n’roll e dal vetriolo schizzato dai media sulla tormentata, chiacchieratissima, relazione dei fratelli diversi. Domani, 29 maggio, compie 54 anni - ne dimostra dieci di meno - quasi due sciupati dalla pandemia, che ha fatto scempio delle certezze degli umani e dei progetti degli artisti. Guarda fuori da una finestra che noi non vediamo: "Stiamo uscendo da un incubo, e oggi a Londra è spuntato anche il sole per riscaldare l’euforia generale. C’è gente per strada, sembra che improvvisamente la città sia rinata".
Come ha trascorso questo anno e mezzo sospeso tra un lockdown e l’altro?
"Una interminabile e impari lotta; per i bambini un inferno, mia moglie ha avuto un bel da fare a convincerli che stare in casa era l’unica opzione possibile. Io, per fortuna, avevo il mio rifugio, lo studio di registrazione è diventato l’isola del tesoro. Cos’altro potevo fare se non immergermi nella musica? C’erano giorni in cui diventava angosciante rientrare a casa e ascoltare i notiziari. Non puoi restare indifferenti quando l’umanità intera è in sofferenza".

Deve essere stato particolarmente frustrante per gli artisti, abituati a saltare da un aereo all’altro.
"Hanno sofferto maggiormente i giovani, quelli che stavano emergendo con un disco appena pubblicato e un tour che stava prendendo il via. Per quanto mi riguarda, dopo trent’anni on the road, i primi tre mesi di lockdown sono stati quasi rigeneranti: la possibilità di stare in famiglia, riprendere contatto con le piccole cose che ero stato costretto a trascurare, concedermi un periodo di inaspettato relax, niente radio né tv né interviste. Improvvisamente le priorità sono diventate secondarietà, non mi rendevo conto che la pandemia stava devastando il nostro quotidiano. Ho incominciato ad avvertire una sorta di impotenza che è sfociata in depressione quando mi sono messo nei panni dei miei ragazzi e dei loro coetanei che per mesi non hanno potuto frequentare la scuola in presenza, praticare sport né avere uno straccio di vita sociale".
Per la prima volta dopo decenni abbiamo affrontato una catastrofe di dimensioni mondiali, tanto più allarmante perché imprevedibile.
"Proprio per questo a un certo punto la musica è arrivata - di nuovo - in mio soccorso, come quando ero un adolescente proletario di Manchester. Mi sono rifugiato nelle canzoni, ho fatto appello alla mia creatività. Ma so bene che al di fuori del mio recinto di privilegiato le persone affrontavano problemi giganteschi, a volte insormontabili - psicologici e materiali. Ho visto gente cambiare totalmente carattere dopo sei mesi di pandemia. Adesso i vaccini hanno riacceso la speranza e in questo la Brexit, che io ho sempre violentemente avversato, ci ha dato una mano. La Gran Bretagna si è autonomamente approvvigionata senza dover scendere a patti con la burocrazia di Bruxelles. Sono sicuro che se fossimo rimasti in Europa, oggi neanche un terzo della popolazione sarebbe stata vaccinata. Per come la vedo io, non torneremo alla normalità prima del 2022".
Cosa deve aspettarsi il pubblico dal lungo periodo in cui si è confinato in studio?
"Come le ho detto, non avevo intenzione di produrre un nuovo album, ero deciso a prendermi un periodo di relax che il Covid-19 ha trasformato in una segregazione forzata e un po’ paranoica, dunque mi sono concentrato su un ’Best of’ con inediti, rimettendo mano a due vecchie canzoni rimaste incompiute. Inoltre, ho incominciato a scrivere cose per un nuovo disco d’inediti, facendo sforzi titanici per non lasciarmi condizionare dalla realtà esterna, in continua, frenetica e imprevedibile evoluzione. Ho scritto più canzoni nel 2020 di quante ne abbia composte in tutta la mia vita".
Alla sua età, con una figlia già grande e due maschietti, si sente più un padre di famiglia o una rockstar on the road?
(Riflette per un tempo interminabile punteggiato di aaahhh, eeehhh e ooohhh). "Tento, ripeto tento, di conciliare le due cose. Ai più piccoli dico sempre, papà era già una rockstar prima che voi nasceste, quindi deve cercare di onorare il suo ruolo - ahahaha. Lo so, è difficile trovare un equilibrio tra le due cose, non lo dico per eludere la domanda, ma mi sento davvero un padre di famiglia on the road".
C’è qualcosa che ha imparato, musicalmente, dai suoi figli?
"Triste a dirsi, ma no. I loro gusti musicali sono terribili. Mi chiedono, ti piace questa? No, mi fa schifo! rispondo. E loro, perché? Perché mi intristisce e mi fa incazzare. Non vedo l’ora che crescano e possano apprezzare la musica che mi ha aiutato a crescere".
A quattordici anni lei era già un fan dei Beatles o ascoltava le canzonette dell’epoca?
"Ai Beatles sono arrivato dopo, il mio percorso è stato a ritroso. Prima sono stato un fan di Sex Pistols, Jam e Damned, poi è stata la volta di Smiths e New Order. Da adolescente ero ovviamente condizionato dalle classifiche di Top of the Pops, canzonacce come Shaddap You Face (di Joe Dolce, 1981; ne canta una strofa). Ma subito dopo m’innamorai dei Tears for Fears".
Ormai il rock non è più solo roba da ragazzi, c’è in circolazione un drappello di valorosi che marcia verso gli ottanta, capeggiato da Dylan, Rolling Stones, Paul McCartney, Neil Young e Springsteen.
"A volte ci rifletto e penso a quanto sono cambiati i tempi. Una volta nel rock la generazione successiva travolgeva la precedente; all’epoca mi sembrava un processo sano e naturale. Ora c’è una sorprendente continuità. Ok, non sono un fan di Springsteen, ma è un grande. E che dire dell’energia live di cui gli Stones sono ancora capaci? Due anni fa ho visto Dylan e Neil Young sullo stesso palco (a Hyde Park, 2019) e...wow!!!".
È un’ottima prospettiva per lei, a meno che, a un certo punto, non pensi di ritirarsi.
"Forget it! Mai! Non lo farò mai!".
Ha dei rimpianti?
"No. Nella carriera come nella vita privata, ripensandoci, ho preso sempre la decisione giusta. Non sono uno che rimugina sul passato. E questi ultimi dieci anni sono stati fantastici".
Neanche di non essere salito sul palcoscenico, a Parigi, per l’ultima esibizione degli Oasis?
"Sa cosa? Se quella sera avessimo suonato sarebbe stato un concerto di merda, una cosa di cui vergognarci. Col senno di poi avremmo potuto prenderci una pausa di riflessione, ma sull’onda dell’emotività era impossibile essere più riflessivi".
C’è stato un momento, dopo lo scioglimento degli Oasis, in cui le sue priorità sono cambiate?
"Con gli Oasis, una band dalla forte identità, le pressioni erano pazzesche. Se mi fossi adattato a tutto quello stress non sarei mai arrivato musicalmente dove mi trovo. Solo quando ho preso le distanze dal gruppo mi sono reso conto di quale macchina infernale fosse diventata. Non ho dubbi: preferisco la vita più semplice e rilassata degli ultimi anni".
Se ripensa al ragazzo di Manchester che era, come si vede? Il fratello maggiore del piccolo Noel?
"Non proprio. Non sono cambiato così tanto. Quando avevo diciassette/diciotto anni avevo la testa di un cinquantenne. Se potessi tornare indietro e dare a me stesso dei consigli, direi: stai tranquillo, stai calmo, il tuo talento ti porterà da qualche parte".
Invecchiare le crea disagio?
"Invecchiare non piace a nessuno. Quel che sto scoprendo è che quando ti ammali a cinquant’anni ci metti il triplo del tempo per riprenderti. E sa qual è il mio terrore? Restare calvo. La prima cosa che ho chiesto al mio medico è stata: il vaccino mi farà cadere i capelli?".
Che ne sarà dello show business dopo la pandemia?
"Si riprenderà, ma niente sarà più come prima. Continueremo a indossare la mascherina per anni, i raduni rock come Glastonbury saranno meno frequentati. Per molti artisti i social sono stati una risorsa durante questi mesi, non per me, li odio. Non mi piacciono la smania e l’ansia di misurare il valore delle proprie azioni e del proprio lavoro contando i like".