Linkiesta, 27 maggio 2021
Leggere Carrère in stazione Centrale e rivalutare la propria insonnia
Opterei per le domande piccole, se non vi spiace, e quindi accantonerei «Dov’era Dio ad Auschwitz?» in favore di: dov’era Emmanuel Carrère martedì mattina, mentre io leggevo “Yoga” nella cappella della stazione centrale di Milano?
«Ho fatto bene a stare al gioco? A non infilare in borsa un taccuino? Sì: avrei trasformato questa esperienza in un reportage. Al tempo stesso, sarebbe ridicolo mentire: sto davvero facendo un reportage. O, meglio: anche un reportage». Da quando ho cominciato a leggere “Yoga” (martedì è finalmente uscito in italiano, lo pubblica Adelphi), sono successe due cose.
La prima è che ci ho trovato dentro una frase su quelli che vivono solo per avere materiale narrativo che rimpiazzi l’usuratissima Erica Jong che cito da trentacinque anni, sebbene trentacinque anni fa scrivessi al massimo dei temi coi quali, alternativamente e del tutto a caso, mi bocciavano o mi davano 9 (insomma: come adesso, ma non mi pagavano). Cito Jong a memoria, con la certezza con cui sai citare solo quel che leggesti negli anni in cui sei carta assorbente: «Io cercavo ispirazione, non un rapporto: dovevo scopare in fretta per poi correre a scrivere».
La seconda cosa che è successa leggendo “Yoga”, che comincia appunto con Carrère che parte per un seminario di yoga di quelli che mamma Ebe in confronto era una libertaria («Penserebbe che mi sono fatto reclutare da una setta? È quello che penserebbe, di certo, mia madre, a meno che non le assicurassi che lo sto facendo per un libro»); quel che è accaduto nel corso di questo libro che comincia da uno di quei ritiri per occidentali con velleità misticheggianti in cui è proibito portarsi il telefono e persino il blocco per gli appunti, è che ho rivalutato la mia insonnia, e al tempo stesso ho accresciuto il disprezzo che nutro per la me insonne.
Carrère infatti spiega che cos’è la meditazione (c’è un altro al mondo di cui leggeremmo pagine su cosa siano lo yoga e la meditazione e il tai chi? C’è una definizione del genio più sensata di: è questo tizio qui il cui narcisismo non ci appare irrilevante in nessun suo dettaglio?): «La meditazione è tutto ciò che accade dentro di noi nel lasso di tempo in cui stiamo seduti, immobili, in silenzio. La noia è meditazione. Il male alle ginocchia, alla schiena, al collo è meditazione. I pensieri parassiti sono meditazione. I gorgoglii nello stomaco sono meditazione». Già da questo parziale elenco desumo che ogni giorno io faccio yoga per almeno quindici ore.
Ma a queste aggiungerei le ore che trascorro a letto (immobile, in silenzio, come da indicazioni carreriane) a parassitariamente pensare al mal di schiena ma soprattutto al fatto che devo assolutamente dormire. Pensavo fosse il modo più stupido in cui spreco abitualmente ore, e invece era meditazione.
Senonché, poche decine di pagine dopo, Carrère mi stronca la convinzione di fare la cosa giusta spiegando che il modo raccomandabile d’affrontare l’insonnia è l’esatto contrario. Lo fa citando un mistico francese, neanche fossimo in una canzone di Battiato: «Charles de Foucauld, quando si svegliava di notte, si alzava per principio, qualunque fosse l’ora, e considerava iniziata la giornata». E così se ne vanno le mie quattr’ore di meditazione ogni mattina.
E quindi martedì mattina ero lì, con in borsa un libro del quale tutti crediamo di sapere tutto perché preceduto da uno scandalo (l’ex moglie, le accuse di menzogne, la malattia mentale che forse non è proprio come la racconta l’autore: era così tanto tempo, che la letteratura non dava scandalo, che mi sento di nuovo ventenne). Sarà perché dentro ci cerchiamo i pettegolezzi, che ci facciamo sembrare interessanti anche le riflessioni sulla meditazione? Sarà come diceva Truman Capote, che tutta la letteratura è pettegolezzo, ma sarà che certa è più pettegolezzo di altra?
Ero lì, nella cappella con tutte le sue cosine al loro posto, l’altare, i dipinti della madonna, il crocifisso. Non perché mi fossi convertita, ma perché ero in anticipo e non sapevo dove altro aspettare il treno.
Ho fatto le scuole cattoliche (so le preghiere in latino: da grandi sono un ottimo modo di fare colpo, più che sapere le canzoni di Battisti), e quindi mi sentivo molto fuori luogo a usare la chiesa come una sala d’aspetto, ma mentre ero lì ho scoperto che lo fanno in parecchi, e qualcuno neppure abbassa la suoneria del telefono (la chiesa vale come il teatro, per scoprire che al mondo c’è persino gente più maleducata di te).
La gente entrava e usciva, si fermava dieci minuti con borse pesanti e ripartiva (che è metafora della religione ma anche descrizione realistica di quel che avviene quando installi una cappella in una stazione), e io intanto meditavo. Cioè: pensavo ai cazzi miei.
Anzi, pensavo alla ragione per cui Carrère se ne va dal seminario di yoga. Non lo cacciano, come avevo sperato all’inizio, quando aveva accennato che quel soggiorno si sarebbe poi interrotto prematuramente. Avevo già pronto il parallelismo con quando mi cacciarono da un corso di recitazione, ma no. Il seminario era nei giorni d’un fatto di cronaca molto grave, la cui notizia irrompe nella routine nonostante l’assenza di telefoni. Stavo meditando, cioè stavo pensando: ma se io scrivo che Carrère ha fatto con Charlie Hebdo quel che Ottessa Moshfegh aveva fatto con l’undici settembre, lui si offende? (Vi sfido a trovare un pensiero più parassita di questo).
Quando è entrato uno che si è seduto all’angolo opposto della cappella rispetto al mio (chiunque entrasse si sedeva in quel posto lontano: volevamo tutti stare seduti, mica compagnia), e immediatamente si è abbassato la mascherina. Ho detto «Ce la tiriamo su, vero?», e lui si è girato: «Parla con me?». No, con l’amico invisibile.
Ho pensato che aveva interrotto la mia meditazione facendomi parlare, cafone. Ho pensato che stare lì a maledirlo mentre, a mascherina abbassata, tirava fuori prima il telefono, poi il computer, e insomma era così orrendamente a suo agio, tutto ciò non costituiva meditazione.
Ho pensato che quella cosa che dice Carrère della scelta di come chiudere i romanzi vale anche per le scene fastidiose della vita. «È sempre una questione, per certi versi, binaria: fiducia o scoramento, slancio o entropia, apertura o chiusura. Finisce bene o finisce male».