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 2021  maggio 27 Giovedì calendario

Intervista a Jonas Jonasson

Nutre uno sconfinato amore per l’Africa, è un grande viaggiatore e con il suo libro d’esordio Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve (pubblicato nel 2011, dal quale è stato tratto anche un film) ha venduto più dieci milioni di copie, tradotto in 46 paesi, «compreso l’Iran». Chi altri, se non lo scrittore svedese, Jonas Jonasson? Classe ’61, afferma con orgoglio che nei suoi libri ci sono «solo due tipi di persone: quelli di buon cuore e quelli che dovrebbero fare del loro meglio per diventarlo» ed è così anche nel suo quinto romanzo, Dolce Vendetta SpA (La Nave di Teseo). Victor Svensson è un uomo senza scrupoli. Sedicente esperto d’arte, ha programmato di sposare Jenny, figlia del proprietario di una prestigiosa galleria per prenderne le redini. Misogino e razzista, scoprirà di avere un figlio adolescente di origini africane, Kevin, e complice un viaggio in Kenya, lo abbandonerà nella savana. Confidando nell’appetito dei leoni Ma Kevin si salverà, verrà allevato dai guerrieri masai e anni dopo tornerà a Stoccolma, rivolgendosi ai servizi di una società molto particolare – Dolce è la vendetta SpA per ottenere la sua rivalsa. Fra equivoci, malintesi e falsi d’arte, in questa intervista Jonas Jonasson inneggia al termine Ubuntu, rivela che vorrebbe tornare nella savana – «dai masai abbiamo molto da imparare, tranne sul fronte dell’edilizia» – e confeziona un romanzo folle e delizioso che riflette sulla censura: «non possiamo mai mollare la presa, non possiamo mai darla per scontata, la libertà».
Dica la verità, lei è un tipo vendicativo?
«Dovrei rispondere che non c’è spazio per una qualsiasi forma di vendetta in una società civile. E in astratto magari è così ma se, per esempio, qualcuno sul posto di lavoro mi rubasse il cestino del pranzo ogni giorno, io come reagirei?».
Verdetto?
«Preparerei il cestino del giorno dopo e lo riempirei di spaghetti con carne macinata, sabbia e cacca di cane. Bisogna essere onesti con noi stessi: ammetto che non sono un santo. Proprio come la maggior parte di tutti noi».
Il libro si apre con una citazione di Adolf Hitler sull’arte. Aveva ragione, il vero è il bello?
«No, mi oppongo fermamente a questa concezione dell’arte. Ogni opera d’arte richiede un creatore e un pubblico, non c’è spazio per giusto o sbagliato, non c’è spazio per un giudizio morale, esercitato da Hitler o da chissà chi. Quando si parla di arte, libertà o diritto di parola non ha senso far ricorso ad un giudizio di merito».
A proposito, la libertà artistica dovrebbe essere totale?
«Assolutamente. Libertà d’arte, libertà di parola scritta, libertà di parola. L’opposto conduce a una società totalitaria e ci si arriva lentamente, un divieto dopo l’altro, senza che nessuno se ne accorga. Non possiamo mai mollare la presa, non possiamo mai darla per scontata, la libertà».
La sua trama si muove dalla Svezia al Kenya. Era il momento di cambiare la prospettiva dei suoi lettori?
«C’è un termine africano, Ubuntu. Penso che formalmente significhi umanità, ma viene tradotto in modo più filosofico: Io sono perché noi siamo ovvero, io non sarei niente senza di te, tu non saresti niente senza di me. Ecco, quando visito l’Africa, mi sento così, parte di qualcosa più grande e decisamente lontano dal desiderio di vendicarmi riempiendo scatole di pranzo con sabbia e cacca di cane»
Meno male. C’è speranza di salvarci?
«Forse. Se fosse per me, direi che dovremmo avere meno nazionalismo, patriottismo o come lo chiamano e molto più Ubuntu».
La cultura occidentale è ancora razzista?
«Capiamoci, il razzismo e l’omofobia sono ovunque e non scompariranno all’improvviso! Ci sono indonesiani contro cinesi, cinesi contro i vietnamiti, il genocidio dei Tutsi in Ruanda, il Black Lives Matter in America e l’odio globale contro gli ebrei in tutto il mondo. E intanto, i social media alimentano i populismi e qualsiasi movimento noi-contro-loro. Lo ammetto, non sono molto fiducioso su questo fronte».
Cosa suggerisce?
«Dovremmo viaggiare e incontrarci, renderci conto che dopotutto non siamo così diversi gli uni dagli altri. Nei miei libri ci sono solo due tipi di persone: quelli di buon cuore. E quelli che dovrebbero fare del loro meglio per diventarlo. C’è il bene e c’è il male, là fuori. La razza, la religione o la cultura non hanno nulla a che fare con questo».
Nel suo libro uno dei protagonisti è un guerriero Masai. Potremmo imparare qualcosa da loro?
«Molto. E loro da noi. Quando un mio amico Masai è venuto a trovarmi a Stoccolma, si è guardato intorno, ha studiato i grattacieli nel centro della città e ha detto: Ok, sapete costruire le vostre case. E visto che avevamo passato insieme molto tempo nella savana africana, so cosa intendesse».
Ovvero?
«I Masai creano i loro cottage con argilla e cacca di mucca. Dopo tre o quattro anni cadono a pezzi e devono ricostruire il villaggio. Ma a loro va bene così, preferiscono dar priorità ad altre cose. Mi prendono in giro quando dico d’aver paura di camminare nell’erba alta solo perché è pieno di serpenti velenosi e mortali. Un Masai sa che il serpente ha più paura di me che io di lui. Ecco, hanno un punto di vista diverso, non migliore o peggiore. E noi dobbiamo rispettarlo».
Nel suo romanzo la chiave della vendetta è una truffa nel mondo dell’arte. Perché ha scelto i dipinti della pittrice sudafricana, Irma Stern?
«Adoro Irma! È stata una grande artista, una viaggiatrice, una donna assolutamente libera e romanzando la sua vita ho creato un collegamento con il mio guerriero Masai e la Germania, la terra dell’espressionismo (che Adolf Hitler ha bullizzato)».
È legato all’Africa?
«Molto. Il Sudafrica è stata la mia seconda casa per decenni. Ho amici carissimi e un figlioccio che vive lì. Raccontare l’Africa per me è importante, è una terra di contrasti, piena di speranza e disperazione, tragedia, povertà e bellezza che per me è casa».